Lo scioglimento della comunione dei beni tra coniugi

scioglimento della comunione dei beni

Quando e come è possibile sciogliere la comunione dei beni

La comunione legale dei beni è un regime patrimoniale che determina la condivisione dei coniugi di ogni aumento di ricchezza conseguito dopo il matrimonio, anche se questo scaturisce dall’operato di uno solo di loro. Al momento del matrimonio questo regime si instaura automaticamente almeno che gli sposi non segnalino di voler agire diversamente.

Scioglimento della comunione dei beni

La comunione dei beni può essere anche sciolta dopo il matrimonio.

Le principali cause di scioglimento sono:

  • Morte di uno dei coniugi;
  • Sentenza di divorzio;
  • Dichiarazione di assenza o morte presunta di uno dei coniugi;
  • Annullamento del matrimonio;
  • Separazione legale dei coniugi;
  • Fallimento di uno dei coniugi;
  • Separazione giudiziale dei beni;
  • Convenzione tra i coniugi

Scioglimento della comunione dei beni e divorzio

Quando i coniugi si separano, lo scioglimento della comunione dei beni si chiama divisione.

Al momento dello scioglimento, cessa il regime di coacquisto e tutti i beni acquistati singolarmente da ciascun coniuge rimangono di proprietà dello stesso.
In seguito è necessario procedere alla divisione dei beni comuni, che vanno divisi sempre a metà fra marito e moglie: la divisione può essere convenzionale (di comune accordo) o giudiziale (è uno dei due coniugi che la propone all’altro).

Con la legge sul divorzio breve, i tempi per lo scioglimento della comunione dei beni in seguito alla separazione si sono molto accorciati.

Fino a questo momento infatti gran parte della giurisprudenza prevedeva che lo scioglimento della comunione si avesse solo con l’adozione del decreto di omologa (nella separazione consensuale) o con il passaggio in giudicato della sentenza (in caso di separazione giudiziale). In altri casi, lo scioglimento si faceva partire dal provvedimento del Tribunale che autorizzava i coniugi a vivere separati.

Già quest’ultima opzione interpretativa anticipava e di molto lo scioglimento della comunione. Se 6 o 6 mesi sono una tempistica media dal deposito del ricorso al provvedimento del Presidente del Tribunale, per l’emissione della sentenza di separazione si parla anche di anni, poiché il giudizio di separazione è una causa ordinaria.

Per arrivare poi al passaggio della sentenza in giudicato possono passare altri anni, perché la sentenza può essere impugnata e che la discussione si sposti al giudizio di Appello e infine a quello di Cassazione.

La legge sul divorzio breve ha quindi deciso di adottare la soluzione più veloce, consentendo una soluzione più veloce ai coniugi che decidono di separarsi per ottenere da subito anche lo scioglimento della comunione dei beni.

Passaggio dalla comunione dei beni alla separazione

Durante il matrimonio nulla vieta ai coniugi di passare dal regime di comunione dei beni a quello di separazione. Per farlo è necessario rivolgersi ad un pubblico ufficiale, nella fattispecie un notaio (non basta l’ufficiale di stato civile del Comune) e la modifica deve essere annotato sull’atto di matrimonio.

Nullità e annullamento del matrimonio civile

nullità e annullamento del matrimonio

Le cause antecedenti o concomitanti che portano ad annullare un matrimonio

Il matrimonio viene considerato invalido, e quindi annullabile, a causa di vizi antecedenti o concomitanti alla sua celebrazione. Il Codice Civile prevede motivazioni ben precise che portano a nullità e annullamento del matrimonio.

Nullità e annullamento del matrimonio

L’azione di nullità (regolamentata da due norme del Codice Civile, art. 1421 e 1422 c.c) ha una natura di accertamento, mentre la sentenza che la definisce è di natura dichiarativa.

L’azione di nullità può essere intrapresa da chiunque vi abbia interesse legittimo, non è soggetta a prescrizione e non prevede sanatoria.

L’annullamento è invece soggetto a prescrizione decennale e può essere oggetto di sanatoria.

Cause di nullità del matrimonio:

  • L’esistenza di rapporti di parentela, affinità e adozione (art. 87 cc). Possono essere causa di nullità matrimoni celebrati tra ascendenti e discendenti in linea retta sia legittimi che naturali; fratelli e sorelle, consanguinei, affini in linea retta, adottante e adottato e suoi discendenti, adottante e coniuge dell’adottato.
  • La condanna per l’omicidio, consumato o tentato, da parte di uno dei coniugi nei confronti dell’altro.
  • L’esistenza di altro matrimonio valido che riguardi uno o ad entrambi gli sposi

Cause di annullamento del matrimonio: (c.d. annullabilità assoluta)

  • I rapporti di parentela, affinità e adozione per i quali è ammessa la dispensa. Per queste ipotesi l’annullamento deve avvenire entro un anno della celebrazione
  • Se al momento della celebrazione del matrimonio uno degli sposi è interdetto oppure e già infermo e viene interdetto in un secondo tempo
  • Se uno dei due sposi sia stato incapace di intendere e volere al momento della celebrazione
  • In caso di matrimonio celebrato quando uno dei due sposi è minorenne, ma l’azione di annullamento non è valida se il nubendo o la nubenda compiono la maggiore età, vi sia stato concepimento o procreazione e venga manifestata sia la volontà di conservare il matrimonio.
  • Esistenza di vizi della volontà di uno dei coniugi o di entrambi. I vizi di volontà sono la violenza, cioè l’estorsione del consenso sotto minaccia o dell’altro coniuge o di terzi, e l’errore. L’errore che porta all’annullamento del matrimonio è quello che induce uno dei due coniugi a non conoscere al momento del matrimonio l’identità personale o qualità ritenute essenziali dell’altro coniuge (ad esempio malattie, condanne, stati di gravidanza)

Conseguenze di nullità e annullamento del matrimonio

Nullità ed annullamento del matrimonio comportano il ritorno dei due coniugi allo stato libero con effetto retroattivo, come se il matrimonio non fosse mai stato celebrato. Il matrimonio viene detto “putativo” quando entrambe i coniugi lo ritengono valido anche se successivamente viene annullato.

Se i coniugi hanno celebrato il matrimonio in buona fede, senza sapere che esistesse una causa di nullità, o se entrambe sono stati costretti da una violenza esterna, il giudice può disporre un assegno di mantenimento a favore del coniuge che non abbia mezzi di sussistenza, per un periodo massimo di tre anni.

Se uno dei due coniugi era invece in mala fede, su di lui ricadono gli obblighi di una indennità congrua a favore del coniuge ignaro e il versamento degli alimenti laddove dovuti.

Il disconoscimento del figlio naturale: cosa dice la legge

disconoscimento del figlio naturale

Le differenze tra il disconoscimento del figlio naturale e quello legittimo

L’azione di disconoscimento del figlio naturale è volta a dimostrare che il figlio riconosciuto in precedenza non è in realtà il proprio figlio biologico, o che sia stato riconosciuto in condizioni di minorate capacità mentali o non in piena libertà.

Figlio naturale e legittimo

Il decreto 154/2013 del Codice civile ha eliminato definitivamente ogni discriminazione tra figli nati dentro e fuori dal matrimonio, garantendo a tutti la stessa uguaglianza giuridica.

Quindi anche per parlare di disconoscimento del figlio naturale è bene distinguere questa azione da quella invece prevista per il figlio legittimo, visto che le condizioni cambiano in modo radicale quando s’intende contestare il rapporto biologico tra un padre e un figlio nato al di fuori dal matrimonio.

Disconoscimento del figlio legittimo

La legge presume che il marito della madre del bambino sia anche il padre, per quella che si definisce “presunzione di paternità”.

Nel caso in cui, invece, la madre riconosca il figlio come naturale, allora decade naturalmente la presunzione, ma se questo non accade per dimostrarlo è necessario ricorrere al disconoscimento.

Quest’azione si può proporre solo in alcuni casi:

  • Mancata convivenza dei coniugi nel periodo compreso tra il 300simo ed il 180simo giorno prima del parto;
  • Se in questo periodo di tempo l’uomo era affetto da impotenza, o anche se era solo incapace di concepire (ad esempio una malattia poi curata);
  • Se la moglie ha avuto una relazione extraconiugale, nascondendo poi al marito la gravidanza e la nascita del figlio.

Questo significa che il marito non può chiedere il disconoscimento di un figlio che ha riconosciuto essendo consapevole che non fosse proprio; possono intraprendere quest’azione la moglie (entro 6 mesi dal parto), il marito (entro un anno dalla nascita o dal suo rientro in famiglia), il figlio (maggiorenne o in caso abbia 16 anni tramite il curatore), discendenti o ascendenti (in caso di morte del presunto padre o della madre), coniuge o discendenti del figlio (entro un anno dalla sua morte o da quando sono diventati maggiorenni.)

L’azione di disconoscimento non può essere intrapresa dal padre naturale o dagli altri soggetti non elencati prima, nonostante sappiano dell’inesistenza del rapporto biologico.

Disconoscimento del figlio naturale

In questo caso non vi è alcuna presunzione di paternità, neanche in caso di convivenza stabile, quindi l’unico modo per provare il disconoscimento del figlio naturale è promuovere l’azione impugnativa di riconoscimento per difetto di verità; chi può farlo?

  • L’autore del riconoscimento entro un anno dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita, con delle varianti:
  • Se il riconoscimento è stato estorto con violenza, entro un anno da quando questa è cessata;
  • Se prova di non essere a conoscenza della propria impotenza o dell’impossibilità di generare, entro un anno da quando ne è venuto a conoscenza.

Anche la madre che ha effettuato il riconoscimento può provare di aver ignorato l’impotenza del presunto padre.

  • Chiunque ne abbia interesse: per motivi patrimoniali o morali, ma non oltre i 5 anni;
  • Dal figlio: se maggiorenne, o da un curatore se ha almeno 14 anni su sua richiesta, del pubblico ministero o dell’altro genitore, senza prescrizione.

La prova per il disconoscimento del figlio naturale va fatta tramite l’indagine del DNA, ma anche tramite dichiarazioni testimoniali.

Il fondo patrimoniale: cos’è e a cosa serve

fondo patrimoniale

Uno strumento che permette ai coniugi di tutelare gli interessi della famiglia

Che cos’è il fondo patrimoniale 

Il fondo patrimoniale è un vincolo che, nell’interesse della famiglia, “blocca” un complesso di determinati beni (mobili, immobili, titoli di credito): costituisce un patrimonio separato la cui funzione è produrre beni per il soddisfacimento dei bisogni di mantenimento e assistenza nell’ambito della famiglia.

E’ considerato un atto di liberalità quindi un atto a titolo gratuito e gode per questo di una disciplina particolare: i coniugi non possono usare i beni che formano il fondo per scopi che siano estranei agli interessi della famiglia, inoltre questi beni sono al riparo dai creditori dei coniugi.

Il fondo patrimoniale può essere costituito da un solo coniuge, da entrambi o da un terzo, che comunque deve avere l’assenso degli sposi, o tramite un testamento. Condizione necessaria per la costituzione di un fondo è essere sposati o fidanzati, nel secondo caso il fondo diventerà valido solo al momento del matrimonio.

Il fondo patrimoniale: caratteristiche

Possono essere oggetto del fondo patrimoniale beni immobili, mobili e titoli di credito. Oggetto del fondo, e quindi vincolati, non sono i beni in sé stessi, ma i diritti sul bene che possono essere l’usufrutto, la superficie, l’enfiteusi o la nuda proprietà.

Ogni fondo può essere associato ad una sola famiglia: il vincolo di destinazione non può riguardare i bisogni di più nuclei.

Amministrazione del fondo patrimoniale

Il fondo è regolato dalle stesse norme che regolano la comunione legale dei beni: occorre quindi distinguere fra ordinaria amministrazione, per la quale l’amministrazione dei coniugi può essere disgiunta, e straordinaria amministrazione, che prevede invece l’assenso di entrambe i coniugi.

E’ comunque possibile, di fronte al rifiuto dei uno dei coniugi, per l’altro rivolgersi al giudice se convinto che l’atto di straordinaria amministrazione sia nell’interesse della famiglia. E’ possibile rivolgersi al giudice anche se uno dei due coniugi è lontano o impedito, o se a giudizio dell’uno l’altra sta male amministrando.

I beni del fondo e i loro frutti non possono essere sottoposti a sequestro o esecuzione forzata per contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia.

La costituzione del fondo patrimoniale va annotata a margine dell’atto di matrimonio, in particolare la data, il notaio che si è occupato del rogito e le generalità dei contraenti. Vanno annotate anche le eventuali modifiche e il tutto viene conservato nei registri del comune in cui il matrimonio è stato celebrato.
Questa forma di pubblicità del fondo ha una natura dichiarativa: rende l’atto costitutivo del fondo in grado di opporsi agli eventuali terzi che vogliono acquisire diritti sul fondo stesso.

Modifiche e cessazione del fondo

Il fondo, una volta costituito, può anche essere modificato sia in termini di disciplina che di composizione.
Le modifiche della disciplina richiedono il consenso di tutti coloro che avevano parte dell’atto costitutivo e in caso di morte, dei loro eredi. Le variazioni sulla composizione invece possono riferirsi ad accrescimenti o diminuzioni e vengono regolate sempre dalla disciplina dell’amministrazione del fondo.

Se il fondo cresce, se ne può creare un altro, anche con discipline diverse, sempre per soddisfare le esigenze della stessa famiglia.

Il fondo patrimoniale cessa di esistere e dunque si estingue per:

  • Scioglimento;
  • Cessazione degli effetti del matrimonio.
  • Annullamento;

Se sono coinvolti figli minorenni, il fondo dura comunque fino al raggiungimento della loro maggiore età.

Riconoscimento del figlio naturale post mortem

riconoscimento del figlio naturale post mortem

Con quale modalità è possibile fare il riconoscimento del figlio naturale post mortem

La riforma della filiazione è avvenuta di recente con la legge n.219 del 2012, che ha provveduto ad equiparare lo stato giuridico di tutti i figli, anche quelli adottivi e incestuosi.

Il decreto legislativo 154/2013 ha successivamente eliminato definitivamente le differenze tra figli naturali (nati al di fuori del matrimonio) e figli legittimi (nati all’interno di un matrimonio).

La legge parla oggi di figli tout court, lasciando solo delle differenze per quanto riguarda delle procedure; queste cambiano, ad esempio per quel che riguarda il riconoscimento: nel caso del figlio legittimo si parla di “presunzione di paternità”, che si basa sul fatto che il marito della madre di un bambino è considerato dalla legge il presunto padre; questo dovrà quindi solo confermare la presunzione.

Riconoscimento del figlio naturale post mortem

In questo caso non ci troviamo all’interno di un matrimonio e quindi non vi è alcuna “presunzione di paternità”, quindi è possibile procedere con il riconoscimento immediato oppure con il riconoscimento del figlio naturale post mortem.

Per trasformare l’atto di procreazione in un atto di filiazione, rilevante per i diritto, è necessario fare una dichiarazione, un atto solenne e irrevocabile, che deve essere alternativamente formalizzato:

  • Nell’atto di nascita;
  • In una dichiarazione davanti all’Ufficiale dello stato civile;
  • In un atto pubblico (sono quelli redatti davanti ad un pubblico ufficiale, ad esempio un notaio);
  • In un testamento (riconoscimento del figlio naturale post mortem);
  • In una domanda presentata al Giudice Tutelare.

Chi può fare il riconoscimento

Per poter riconoscere il figlio naturale era necessario aver compiuto sedici anni, ma il limite di età dei genitori è stato ora abbassato ai quattordici anni; fino al raggiungimento dell’età necessaria da parte del genitore il bambino non può essere dichiarato in stato di adottabilità, a condizione che sia però assistito dall’altro genitore naturale o dai parenti.

Se uno dei due genitori ha già effettuato il riconoscimento, l’altro può farlo solo con il suo consenso; questo può essere rifiutato, e in questo caso l’aspirante genitore naturale può rivolgersi a un Tribunale, che valuterà se concedere o meno l’autorizzazione, che non può essere negata se corrisponde all’interesse del figlio.

Nel caso in cui il figlio da riconoscere abbia già 16 anni è necessario il suo consenso per procedere.

Riconoscimento figlio naturale post mortem

E’ anche possibile effettuare il riconoscimento del figlio naturale post mortem, che avviene tramite il testamento; in questo caso il figlio riconosciuto diventerà titolare di tutti i suoi diritti solo dopo la morte del testatore, entrando così a far parte degli eredi legittimi, insieme all’eventuale coniuge, e gli altri eventuali figli.

Avrà diritto così alla sua quota legittima, così come potrà assumere il cognome del padre naturale.

L’eredità del figlio non riconosciuto

eredità del figlio non riconosciuto

Con la legittimazione passiva si può fare il riconoscimento del genitore dopo la morte e parlare di eredità del figlio non riconosciuto

Per quanto riguarda l’eredità la legge italiana impone delle regole molto rigide.

Una parte di eredità, anche in presenza di un testamento, è infatti riservata a quelli che vengono definiti gli eredi legittimi del defunto, a cui spetta quindi una quota legittima; questi sono i parenti più stretti: il coniuge, i figli e in alcuni casi anche i genitori.

Qui ci occuperemo della quota riservata ai figli e in particolare dell’eredità del figlio non riconosciuto.

Vediamo prima come vengono ripartite le quote ai figli riconosciuti regolarmente:

Legittima a favore dei figli senza coniuge:

  • Un solo figlio: 1/2 del patrimonio ereditario;
  • Due figli o più: 2/3 del patrimonio ereditario (da dividere in parti uguali fra loro).

Legittima dei figli con il coniuge

  • 1/3, con un solo figlio e 1/3 al coniuge;
  • 1/2 del patrimonio ereditario, se ci sono più figli, da ripartirsi equamente, e ¼ al coniuge.

Il riconoscimento

Prima di parlare di eredità del figlio non riconosciuto è bene capire cos’è il riconoscimento: l’atto attraverso il quale si trasforma l’atto di procreazione in un atto di filiazione rilevante per il diritto; attraverso il riconoscimento il figlio diventa titolare di diritti, e il padre si assume tutte le sue responsabilità nei suoi confronti; è possibile riconoscere i figli nati all’interno del matrimonio (attraverso la presunzione di paternità) e quelli nati al di fuori; prima della riforma del 2012 si definivano figli legittimi i primi, e naturali i secondi.

Grazie al decreto Legislativo 154/2013 è oggi possibile anche riconoscere i figli “incestuosi”, nati da genitori tra i quali esiste un rapporto di parentela o di affinità, mentre in passato era impossibile per quelli in malafede (che erano a conoscenza della parentela prima del concepimento).

Tutti i figli sono stati equiparati a livello giuridico, e quindi entrano di diritto a far parte degli eredi legittimi in caso di morte di uno dei genitori.

Eredità al figlio non riconosciuto

Non spetta nessuna quota dell’eredità al figlio non riconosciuto.

Il figlio non riconosciuto non ha, infatti, alcun diritto successorio, ma può disporre dell’azione giudiziale ai sensi dell’articolo 276 del Codice civile, per ottenere il riconoscimento anche dopo la morte del presunto genitore.

Legittimazione passiva

In questo caso, in assenza del genitore, l’azione va proposta nei confronti degli eredi del defunto (vedova e figli se presenti) e in mancanza di questi è possibile agire nei confronti di un curatore nominato dal giudice.

L’azione è utile al fine di riconoscere una parte di eredità al figlio non riconosciuto in vita dal defunto, che però risulta esserlo effettivamente; non importa quanti anni siano passati perché l’azione della legittimazione passiva non ha prescrizione, e la domanda può essere contraddetta da chiunque ne abbia interesse.

Se la sentenza è favorevole al figlio, questo rientra nella sfera degli eredi legittimi, perché produce gli stessi effetti del riconoscimento effettuato dal genitore e, in base alla legge 219/2012 s’instaura il rapporto di parentela tra figlio riconosciuto e parenti (fratelli, sorelle, genitori) e il proprio genitore.

Mantenimento del cognome: cosa succede dopo il divorzio

mantenimento del matrimonio

Dopo il divorzio i coniugi possono chiedere il mantenimento del cognome coniugale oppure riprendere i loro cognomi da celibe e nubile

La legge in materia di diritto dei cognomi in vigore dal 1 gennaio 2013 stabilisce per i coniugi il mantenimento del cognome da celibe e nubile anche dopo il matrimonio.

I coniugi al momento del matrimonio possono decidere di avere un unico cognome coniugale e sceglierlo liberamente tra quello del marito o quello della moglie.

Non è più ammesso il doppio cognome, mentre quello di affinità con il trattino a dividere i due cognomi è accettato nella quotidianità anche se non si tratta di un cognome ufficialmente registrato.

I figli dei genitori sposati ricevono il cognome coniugale scelto al momento del matrimonio.

I coniugi che invece non hanno un cognome coniugale devono scegliere quale cognome dare ai propri figli.

Il cambiamento del cognome deve essere comunicato al datore di lavoro, alle autorità fiscali, alle banche, ecc

Ma cosa succede quando il matrimonio si scioglie? È possibile il mantenimento del cognome anche dopo il divorzio?

Mantenimento del cognome in caso di divorzio

  • Il Codice Civile stabilisce che la moglie può aggiungere al proprio cognome quello del marito e lo conserva anche nel caso di morte del marito, fino a che non contrae un nuovo matrimonio.
  • In caso di divorzio i due coniugi possono riprendere il loro cognome da celibe e nubile in qualsiasi momento, semplicemente modificandolo presso l’Ufficio di Stato Civile.
  • Se il coniuge che riprende il suo cognome da celibe o nubile ha l’autorità parentale esclusiva può decidere di chiedere il cambiamento di cognome anche per la prole.

Cosa fare se il mantenimento del cognome risulta pregiudizievole

  • In caso di separazione o divorzio dei coniugi, il Giudice competente può vietare alla moglie il mantenimento del cognome del marito se esso risulta pregiudizievole per il marito.
  • Allo stesso modo il Giudice può autorizzare la moglie a non utilizzare più tale cognome se il suo utilizzo risulta pregiudizievole per lei.
  • Il marito può impedire quindi che la ex moglie continui ad utilizzare il suo cognome e chiedere un risarcimento danni.
  • Per impedirne l’uso è sufficiente dimostrare la possibilità che da questo derivi un danno o un pregiudizio anche solo di origine morale.
  • Per quanto riguarda invece il risarcimento è necessario dimostrare un pregiudizio effettivo, secondo le norme generali dell’illecito civile, patrimoniale o morale.

Mantenimento del cognome per interesse e riconoscibilità personale

Nel corso della causa di divorzio la moglie può richiedere il mantenimento del cognome del marito aggiunto al proprio al momento del matrimonio, nel caso sussista un interesse suo o dei figli meritevole di tutela.

Ci sono infatti casi in cui la moglie è riconosciuta nell’ambiente sociale e professionale con il cognome del marito e quindi ha tutto l’interesse a mantenerlo anche dopo la sentenza di scioglimento del matrimonio stesso.

Il Tribunale può concedere l’autorizzazione a tale uso al momento della sentenza; tale decisione può comunque essere rivista successivamente su richiesta di una delle parti per motivi di particolare gravità.

La pensione di reversibilità dopo il divorzio

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Una quota della pensione di una persona defunta spetta a chi ne è stato coniuge

In caso di morte di uno dei due coniugi divorziati, qualora sussistano determinate condizioni, l’ex coniuge superstite ha diritto a ricevere la pensione di reversibilità, calcolata sulla base della durata del matrimonio e della situazione economica dell’ex coniuge superstite.

Questa tutela si aggiunge alle altre previste dalla Legge sul Divorzio, come il versamento di un assegno divorzile e il diritto ad una quota del TFR dell’altro coniuge.

Per pensione di reversibilità si intende una quota della pensione di una persona defunta che spetta a chi ne è stato coniuge.

Perché il coniuge divorziato possa percepire quella dell’ex coniuge defunto devono però essere rispettate tre condizioni specifiche:

  1. il coniuge divorziato superstite può convivere con una terza persona ma non deve essersi risposato;
  2. il rapporto di lavoro da cui trae origine il trattamento pensionistico del coniuge defunto deve essere anteriore alla sentenza di divorzio e quindi legato ad un periodo in cui i due coniugi erano ancora legalmente sposati.
  3. il coniuge divorziato deve percepire dall’ex coniuge defunto un assegno divorzile a cadenza periodica.

In base a questo ultimo punto, se al momento della morte, il coniuge superstite non aveva diritto ad alcun assegno, perché non lo aveva mai avuto o perché ne erano venute meno le ragioni e quindi era stato revocato, o ancora se aveva ricevuto l’assegno divorzile in un’unica soluzione, allora non ha diritto alla pensione di reversibilità dell’ex coniuge venuto a mancare.

Come si calcola l’importo della pensione di reversibilità

L’importo dovuto a titolo di pensione di reversibilità all’ex coniuge superstite è calcolato in base al rapporto che intercorre tra la durata del matrimonio e il periodo di maturazione della pensione dell’ex coniuge defunto.

L’arco di tempo del matrimonio comprende anche il periodo di separazione legale, fino alla data di sentenza di divorzio.

Nuovo matrimonio e pensione di reversibilità

Anche qualora il defunto avesse intrapreso una relazione o una convivenza con una terza persona dopo il divorzio, la pensione di reversibilità spetta comunque e interamente all’ex coniuge divorziato.

Se invece il defunto aveva contratto nuove nozze dopo il divorzio, allora la pensione spetta in parte all’ex coniuge superstite e in parte al nuovo coniuge superstite, ovvero al vedovo o alla vedova.

In questo caso la ripartizione delle quote viene decisa dal Tribunale competente in base alla durata dei rispettivi matrimoni e sulle condizioni economiche e reddituali della ex coniuge superstite e della vedova o vedovo.

In caso di decesso dell’ex coniuge divorziato, l’ex coniuge superstite deve avviare un ricorso al Tribunale affinché venga riconosciuto il suo diritto a percepire la pensione di reversibilità.

Il Tribunale di riferimento si accerterà che sussistano le tre condizioni di cui sopra per poi calcolare la quota ad esso spettante della pensione del defunto.

 

Modifica delle condizioni di divorzio: come fare

modifica delle condizioni di divorzio

Come e quando è possibile richiedere delle modifiche alle condizioni di divorzio

La modifica condizioni di divorzio può essere richiesta da uno dei due coniugi che può revocare o modificare le decisioni della sentenza di divorzio in materia di affidamento dei figli e di disposizioni economiche.

Il provvedimento di modifica viene emesso dal Tribunale competente su richiesta di uno dei coniugi divorziati nel caso in cui siano concretamente mutate le condizioni stabilite dalla sentenza di scioglimento del vincolo matrimoniale.

Nel caso specifico in cui si richiedano modifiche dei provvedimenti che riguardano la prole, al procedimento di modifica condizioni di divorzio prenderà parte anche il PM.

In riferimento invece alla modifica delle condizioni economiche, in particolare alla quantificazione e alla modalità del versamento dell’assegno divorzile, al provvedimento giudiziale si può sostituire la modifica condizioni di divorzio in maniera consensuale, attraverso la negoziazione assistita da un legale che porta ad un accordo tra le parti, come sancito dal DL 132/2014.

Modifica condizioni di divorzio: le motivazioni

I presupposti per presentare la richiesta di revisione delle condizioni di divorzio variano a seconda dei casi e della presenza di giustificati motivi sopravvenuti, come citato dalla Legge sul divorzio stessa.

Modifica condizioni di divorzio: l’affidamento dei figli

Uno dei due coniugi può per esempio richiedere l’affidamento esclusivo dei figli o l’affidamento condiviso, secondo l’interesse dei figli stessi.

Il D.Lgs. 154/2013 in materia di filiazione, ha poi introdotto nel Codice Civile nuove norme in materia di provvedimenti relativi alla prole e al suo affidamento.

In particolare l’articolo 337- quinquies del Codice Civile stabilisce che la revisione delle disposizioni inerenti all’affidamento dei figli e della cosiddetta responsabilità genitoriale possono essere chieste in qualunque momento, senza presupporre necessariamente da parte di uno dei coniugi un cattivo comportamento.

La revoca dell’affidamento infatti può avvenire anche per altri giustificati motivi, come una malattia del coniuge affidatario che improvvisamente non può più prendersi cura dei figli.

Modifica condizioni di divorzio: l’aspetto economico

La modifica delle condizioni di divorzio può essere richiesta anche in riferimento all’assegno divorzile o di mantenimento; il coniuge interessato può richiederne l’aumento o la diminuzione, in base a nuove esigenze e possibilità delle parti.

È anche possibile richiedere il semplice adeguamento dell’importo all’andamento dell’inflazione.

Qualsiasi decisione in merito non può esser presa senza aver prima esposto la situazione al Giudice competente.

In caso di miglioramento delle condizioni economiche del coniuge a cui spetta l’assegno di mantenimento, l’altro coniuge non ha quindi nessun diritto di interrompere il versamento o modificarne l’importo.

La negoziazione assistita

Abbiamo visto come ad oggi i coniugi abbiano la possibilità di trovare un accordo sulle modifiche delle condizioni di divorzio senza dover passare necessariamente attraverso un Tribunale e il parere di un Giudice.

Il D.L. 132/2014 ha infatti introdotto la cosiddetta convenzione di negoziazione assistita da un avvocato; essa consiste nella possibilità di trovare un accordo per risolvere la controversia in via amichevole, grazie all’assistenza di legali che affiancano le due parti.

Quali sono i contratti di convivenza

contratti di convivenza

Contratti di convivenza, cosa sono e come si stipulano

I contratti di convivenza sono accordi bilaterali con cui la coppia decide di definire le regole del proprio vivere insieme, regolamentando i rapporti patrimoniali ed in parte alcuni aspetti dei rapporti personali. L’accordo può essere utile per stabilire le conseguenze patrimoniali al momento dell’eventuale cessazione della convivenza.

I contratti di convivenza possono essere stipulati da tutti coloro che decidono di vivere insieme stabilmente spinti da un vincolo affettivo (c.d. convivenza more uxorio) e che decidono di vivere insieme al di fuori del matrimonio o perché questa possibilità è a loro preclusa (il caso delle coppie omosessuali) o perché non vogliono sottoporsi al vincolo matrimoniale.

Anche la famiglia “non tradizionale” può tutelarsi stipulando un contratto di convivenza.

Uno dei casi tipici nel quale si fa ricorso al contratto di convivenza è quello di persone che convivono essendo però state già sposate e separate, ed in attesa di sentenza di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Il contratto di convivenza può essere redatto dal notaio o in forma di scrittura privata, con o senza la consulenza di un avvocato, in qualunque momento: all’inizio della convivenza o quando sorge l’esigenza di regolamentarne lo svolgimento (ad esempio in occasione dell’acquisto di una casa).

Cosa regolamenta il contratto di convivenza

Aspetti patrimoniali che possono essere disciplinati dai contratti di convivenza:

  • modalità di partecipazione alle spese comuni
  • Obblighi di contribuzione reciproca nelle spese comuni
  • Principi di attribuzione della proprietà dei beni acquistati durante la convivenza (arrivando a definire regimi simili a quelli di comunione o separazione);
  • Le regole d’uso della casa adibita a residenza principale
  • La definizione dei rapporti patrimoniali in caso di eventuale cessazione del rapporto di convivenza
  • La possibilità di assistenza reciproca, in tutti i casi di malattia fisica o mentale e qualora sia compromessa la capacità di intendere e di volere di uno dei due partner

Non possono invece essere regolamentate dai contratti le disposizioni riguardanti i rapporti di successione, i quali possono essere cambiati solo inserendo apposite clausole a favore del partner nel testamento (quando si dispone dei proprio beni)

Validità e recesso

Dal contratto di convivenza nascono obblighi giuridici a carico delle parti che lo hanno sottoscritto, che comportano la possibilità per entrambe i partners di rivalersi se l’altro non ottempera le disposizioni che ha accettato. La durata dei contratti di convivenza coincide con la durata stessa del rapporto.

Alcuni accordi contenuti nel contratto, però, sono proprio destinati a produrre i loro effetti quando il rapporto di convivenza cessa: ad esempio tutti quelli che fissano le modalità per la definizione dei rapporti patrimoniali reciproci in caso di cessazione della convivenza. In qual caso il contratto continua ad avere effetto per disciplinare la fase in oggetto, mentre cessa di produrre effetti per quanto che riguarda tutto il resto.

Le parti possono comunque riservarsi la facoltà di recesso mediante specifici accordi inseriti nel contratto: il recesso può essere totalmente libero, gratuito o subordinato al pagamento di una multa o penale.