Mantenimento del cognome: cosa succede dopo il divorzio

mantenimento del matrimonio

Dopo il divorzio i coniugi possono chiedere il mantenimento del cognome coniugale oppure riprendere i loro cognomi da celibe e nubile

La legge in materia di diritto dei cognomi in vigore dal 1 gennaio 2013 stabilisce per i coniugi il mantenimento del cognome da celibe e nubile anche dopo il matrimonio.

I coniugi al momento del matrimonio possono decidere di avere un unico cognome coniugale e sceglierlo liberamente tra quello del marito o quello della moglie.

Non è più ammesso il doppio cognome, mentre quello di affinità con il trattino a dividere i due cognomi è accettato nella quotidianità anche se non si tratta di un cognome ufficialmente registrato.

I figli dei genitori sposati ricevono il cognome coniugale scelto al momento del matrimonio.

I coniugi che invece non hanno un cognome coniugale devono scegliere quale cognome dare ai propri figli.

Il cambiamento del cognome deve essere comunicato al datore di lavoro, alle autorità fiscali, alle banche, ecc

Ma cosa succede quando il matrimonio si scioglie? È possibile il mantenimento del cognome anche dopo il divorzio?

Mantenimento del cognome in caso di divorzio

  • Il Codice Civile stabilisce che la moglie può aggiungere al proprio cognome quello del marito e lo conserva anche nel caso di morte del marito, fino a che non contrae un nuovo matrimonio.
  • In caso di divorzio i due coniugi possono riprendere il loro cognome da celibe e nubile in qualsiasi momento, semplicemente modificandolo presso l’Ufficio di Stato Civile.
  • Se il coniuge che riprende il suo cognome da celibe o nubile ha l’autorità parentale esclusiva può decidere di chiedere il cambiamento di cognome anche per la prole.

Cosa fare se il mantenimento del cognome risulta pregiudizievole

  • In caso di separazione o divorzio dei coniugi, il Giudice competente può vietare alla moglie il mantenimento del cognome del marito se esso risulta pregiudizievole per il marito.
  • Allo stesso modo il Giudice può autorizzare la moglie a non utilizzare più tale cognome se il suo utilizzo risulta pregiudizievole per lei.
  • Il marito può impedire quindi che la ex moglie continui ad utilizzare il suo cognome e chiedere un risarcimento danni.
  • Per impedirne l’uso è sufficiente dimostrare la possibilità che da questo derivi un danno o un pregiudizio anche solo di origine morale.
  • Per quanto riguarda invece il risarcimento è necessario dimostrare un pregiudizio effettivo, secondo le norme generali dell’illecito civile, patrimoniale o morale.

Mantenimento del cognome per interesse e riconoscibilità personale

Nel corso della causa di divorzio la moglie può richiedere il mantenimento del cognome del marito aggiunto al proprio al momento del matrimonio, nel caso sussista un interesse suo o dei figli meritevole di tutela.

Ci sono infatti casi in cui la moglie è riconosciuta nell’ambiente sociale e professionale con il cognome del marito e quindi ha tutto l’interesse a mantenerlo anche dopo la sentenza di scioglimento del matrimonio stesso.

Il Tribunale può concedere l’autorizzazione a tale uso al momento della sentenza; tale decisione può comunque essere rivista successivamente su richiesta di una delle parti per motivi di particolare gravità.

La pensione di reversibilità dopo il divorzio

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Una quota della pensione di una persona defunta spetta a chi ne è stato coniuge

In caso di morte di uno dei due coniugi divorziati, qualora sussistano determinate condizioni, l’ex coniuge superstite ha diritto a ricevere la pensione di reversibilità, calcolata sulla base della durata del matrimonio e della situazione economica dell’ex coniuge superstite.

Questa tutela si aggiunge alle altre previste dalla Legge sul Divorzio, come il versamento di un assegno divorzile e il diritto ad una quota del TFR dell’altro coniuge.

Per pensione di reversibilità si intende una quota della pensione di una persona defunta che spetta a chi ne è stato coniuge.

Perché il coniuge divorziato possa percepire quella dell’ex coniuge defunto devono però essere rispettate tre condizioni specifiche:

  1. il coniuge divorziato superstite può convivere con una terza persona ma non deve essersi risposato;
  2. il rapporto di lavoro da cui trae origine il trattamento pensionistico del coniuge defunto deve essere anteriore alla sentenza di divorzio e quindi legato ad un periodo in cui i due coniugi erano ancora legalmente sposati.
  3. il coniuge divorziato deve percepire dall’ex coniuge defunto un assegno divorzile a cadenza periodica.

In base a questo ultimo punto, se al momento della morte, il coniuge superstite non aveva diritto ad alcun assegno, perché non lo aveva mai avuto o perché ne erano venute meno le ragioni e quindi era stato revocato, o ancora se aveva ricevuto l’assegno divorzile in un’unica soluzione, allora non ha diritto alla pensione di reversibilità dell’ex coniuge venuto a mancare.

Come si calcola l’importo della pensione di reversibilità

L’importo dovuto a titolo di pensione di reversibilità all’ex coniuge superstite è calcolato in base al rapporto che intercorre tra la durata del matrimonio e il periodo di maturazione della pensione dell’ex coniuge defunto.

L’arco di tempo del matrimonio comprende anche il periodo di separazione legale, fino alla data di sentenza di divorzio.

Nuovo matrimonio e pensione di reversibilità

Anche qualora il defunto avesse intrapreso una relazione o una convivenza con una terza persona dopo il divorzio, la pensione di reversibilità spetta comunque e interamente all’ex coniuge divorziato.

Se invece il defunto aveva contratto nuove nozze dopo il divorzio, allora la pensione spetta in parte all’ex coniuge superstite e in parte al nuovo coniuge superstite, ovvero al vedovo o alla vedova.

In questo caso la ripartizione delle quote viene decisa dal Tribunale competente in base alla durata dei rispettivi matrimoni e sulle condizioni economiche e reddituali della ex coniuge superstite e della vedova o vedovo.

In caso di decesso dell’ex coniuge divorziato, l’ex coniuge superstite deve avviare un ricorso al Tribunale affinché venga riconosciuto il suo diritto a percepire la pensione di reversibilità.

Il Tribunale di riferimento si accerterà che sussistano le tre condizioni di cui sopra per poi calcolare la quota ad esso spettante della pensione del defunto.

 

Modifica delle condizioni di divorzio: come fare

modifica delle condizioni di divorzio

Come e quando è possibile richiedere delle modifiche alle condizioni di divorzio

La modifica condizioni di divorzio può essere richiesta da uno dei due coniugi che può revocare o modificare le decisioni della sentenza di divorzio in materia di affidamento dei figli e di disposizioni economiche.

Il provvedimento di modifica viene emesso dal Tribunale competente su richiesta di uno dei coniugi divorziati nel caso in cui siano concretamente mutate le condizioni stabilite dalla sentenza di scioglimento del vincolo matrimoniale.

Nel caso specifico in cui si richiedano modifiche dei provvedimenti che riguardano la prole, al procedimento di modifica condizioni di divorzio prenderà parte anche il PM.

In riferimento invece alla modifica delle condizioni economiche, in particolare alla quantificazione e alla modalità del versamento dell’assegno divorzile, al provvedimento giudiziale si può sostituire la modifica condizioni di divorzio in maniera consensuale, attraverso la negoziazione assistita da un legale che porta ad un accordo tra le parti, come sancito dal DL 132/2014.

Modifica condizioni di divorzio: le motivazioni

I presupposti per presentare la richiesta di revisione delle condizioni di divorzio variano a seconda dei casi e della presenza di giustificati motivi sopravvenuti, come citato dalla Legge sul divorzio stessa.

Modifica condizioni di divorzio: l’affidamento dei figli

Uno dei due coniugi può per esempio richiedere l’affidamento esclusivo dei figli o l’affidamento condiviso, secondo l’interesse dei figli stessi.

Il D.Lgs. 154/2013 in materia di filiazione, ha poi introdotto nel Codice Civile nuove norme in materia di provvedimenti relativi alla prole e al suo affidamento.

In particolare l’articolo 337- quinquies del Codice Civile stabilisce che la revisione delle disposizioni inerenti all’affidamento dei figli e della cosiddetta responsabilità genitoriale possono essere chieste in qualunque momento, senza presupporre necessariamente da parte di uno dei coniugi un cattivo comportamento.

La revoca dell’affidamento infatti può avvenire anche per altri giustificati motivi, come una malattia del coniuge affidatario che improvvisamente non può più prendersi cura dei figli.

Modifica condizioni di divorzio: l’aspetto economico

La modifica delle condizioni di divorzio può essere richiesta anche in riferimento all’assegno divorzile o di mantenimento; il coniuge interessato può richiederne l’aumento o la diminuzione, in base a nuove esigenze e possibilità delle parti.

È anche possibile richiedere il semplice adeguamento dell’importo all’andamento dell’inflazione.

Qualsiasi decisione in merito non può esser presa senza aver prima esposto la situazione al Giudice competente.

In caso di miglioramento delle condizioni economiche del coniuge a cui spetta l’assegno di mantenimento, l’altro coniuge non ha quindi nessun diritto di interrompere il versamento o modificarne l’importo.

La negoziazione assistita

Abbiamo visto come ad oggi i coniugi abbiano la possibilità di trovare un accordo sulle modifiche delle condizioni di divorzio senza dover passare necessariamente attraverso un Tribunale e il parere di un Giudice.

Il D.L. 132/2014 ha infatti introdotto la cosiddetta convenzione di negoziazione assistita da un avvocato; essa consiste nella possibilità di trovare un accordo per risolvere la controversia in via amichevole, grazie all’assistenza di legali che affiancano le due parti.

Comunione dei beni e il divorzio

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Come ottenere lo scioglimento della comunione dei beni a seguito di un divorzio

Il regime matrimoniale riguarda la regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra i due coniugi dal momento in cui viene celebrato il matrimonio all’eventuale momento in cui viene sancito il definitivo scioglimento dello stesso, davanti a un Giudice o tramite negoziazione assistita.

Esistono due diversi regimi matrimoniali:

  1. Regime della separazione dei beni
  2. Regime della comunione dei beni

Al momento del matrimonio, salvo diverse disposizioni espresse dai due coniugi, si stabilisce il regime patrimoniale della comunione dei beni.

Tale regime, per volontà di entrambe le parti, può essere derogato in favore del regime della separazione dei beni, che può quindi essere adottato al momento del matrimonio o anche successivamente, attraverso un atto notarile apposito.

Della comunione tra coniugi fanno parte tutti i beni acquistati congiuntamente o separatamente dai coniugi dopo il matrimonio e che appartengono in parti uguali al marito e alla moglie.

Per fare degli esempi pratici, ricadono nel regime della comunione dei beni:

  • gli acquisti compiuti dai coniugi, insieme o separatamente, dopo il matrimonio;
  • le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio;
  • gli utili ed incrementi di azienda di proprietà di uno solo dei coniugi anteriormente al matrimonio, ma gestita da entrambi;
  • i risparmi dei coniugi.

Sono invece esclusi dalla comunione dei beni i beni di cui uno dei coniugi era titolare prima del matrimonio, i beni acquisiti da un coniuge per donazione e i beni di uso strettamente personale o che servono all’esercizio della professione.

  • Lo scioglimento della comunione si può ottenere nelle seguenti ipotesi:
  • morte di uno dei coniugi;
  • dichiarazione di morte o di assenza presunta;
  • sentenza di divorzio;
  • sentenza o decreto di omologa della separazione personale;
  • fallimento di uno dei coniugi;
  • annullamento del matrimonio;
  • accordo convenzionale di abbandono del regime di comunione legale;
  • successiva separazione giudiziale dei beni.

Scioglimento della comunione dei beni e successiva divisione dei beni

A seguito dello scioglimento della comunione dei beni in conseguenza alla separazione personale dei coniugi, si attua la cosiddetta divisione dei beni.

Da maggio 2015 con l’entrata in vigore le nuove disposizioni sul divorzio breve si realizza lo scioglimento anticipato della comunione dei beni tra i due coniugi.

Essa si realizza infatti non più al momento del passaggio in giudicato della sentenza di separazione ma quando il Presidente del Tribunale autorizza i due coniugi a vivere separati, o al momento della sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente, purché omologato.

La fine della comunione dei beni e quindi la divisione degli stessi tra i coniugi può essere effettuata di comune accordo tra le parti.

Se il contratto di divisione riguarda beni immobili è richiesta la forma scritta e il contratto è soggetto a trascrizione.

La richiesta di divisione dei beni può essere avviata da ciascun coniuge per ottenere lo scioglimento della comunione.

Si procede prima alla stima dei beni poi alla formazione delle porzioni: ciascuno ha diritto alla sua parte in natura dei beni mobili e immobili.

In caso di beni che non possono essere divisi o perché indivisibili per natura o perché la divisione non è opportuna, si procede alla loro vendita e alla divisione del ricavo tra i due coniugi.

Inadempimento delle condizioni di divorzio

inadempimento delle condizioni di divorzio

Le conseguenze civili e penali in caso di inadempimento delle condizioni stabilite in sede di divorzio

I casi di inadempimento delle condizioni di divorzio sono numerosissimi; le norme al riguardo hanno lo scopo principale di tutelare gli aventi diritto e di garantire che venga loro versato il mantenimento.

L’ordinamento giuridico offre diversi strumenti coercitivi agli aventi diritto in caso di inadempimento delle condizioni di divorzio e quindi del coniuge che si sottrae agli obblighi di mantenimento della prole e dell’altro coniuge fissati dalla sentenza di separazione o di divorzio.

L’art. 337-ter del Codice Civile ribadisce il dovere sancito anche dalla Costituzione di mantenimento, cura, educazione, istruzione e assistenza dei genitori nei confronti della prole.

L’articolo 156 del Codice Civile invece prevede che: “il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri”.

L’inadempimento delle condizioni di divorzio e quindi dell’obbligo del mantenimento ha conseguenze sia sul lato penale che su quello civile.

Conseguenze civili dell’inadempimento delle condizioni di divorzio

Per la Legge anche l’inadempienza isolata nel pagamento dell’importo dovuto per il mantenimento è sufficiente perché gli aventi diritto si appellino all’articolo 156 del Codice Civile e richiedano la somma loro dovuta.

Anche quando non costituisce reato infatti il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento è un illecito civile e offre al coniuge più debole una serie di tutele tra cui:

  • la possibilità per gli aventi diritto di fare istanza al giudice perché emetta un ordine di pagamento diretto e quindi ordini a soggetti terzi che sono tenuti a corrispondere periodicamente somme di denaro all’obbligato, che una parte di queste ultime venga indirizzata agli aventi diritto;
  • la possibilità per gli aventi diritto di procedere al sequestro di parte dei beni dell’obbligato, come previsto dall’articolo 156 del Codice Civile e dalla legge sul divorzio (n. 898/1970);
  • la richiesta di ritiro del passaporto al coniuge obbligato al mantenimento perché egli non si sottragga ai suoi obblighi rendendosi irreperibile.

Conseguenze penali dell’inadempimento delle condizioni di divorzio

L’ inadempimento delle condizioni di divorzio costituisce anche un reato penale, perché ricade tra i reati puniti dall’articolo 570 del Codice Penale, modificato poi dal D. Lgs. n. 154/2013, che sanziona chiunque si sottragga agli obblighi di assistenza derivanti dalla responsabilità genitoriale o dal ruolo di coniuge con la pena della reclusione fino a un anno o di una multa pecuniaria da euro 103 fino a 1.032 euro.

In questo caso non basta l’inadempienza isolata ma piuttosto deve esserci un’omissione tale da privare materialmente il coniuge o i figli dei mezzi di sussistenza, determinando loro una condizione di disagio.

La revisione dell’assegno

Nel caso in cui il coniuge obbligato al mantenimento registri uno stato di impossibilità o grave difficoltà nel far fronte al versamento dell’assegno, egli può richiedere la modifica e la revisione dell’importo dell’assegno stesso.

L’articolo 156 del Codice Civile in caso di sopraggiunti giustificati motivi permette al Giudice di disporre la revoca o la modifica dei provvedimenti adottati in ordine all’assegno di mantenimento in sede di divorzio.

TFR del coniuge divorziato: in quali casi l’ex coniuge ne ha diritto

tfr del coniuge divorziato

In caso di divorzio il coniuge ha diritto ad una quota del TFR del coniuge divorziato

In caso di divorzio la Legge prevede delle tutele per il coniuge più debole; tra queste il versamento di un assegno divorzile, una quota della pensione di reversibilità in caso di morte dell’ex coniuge e una quota del TFR del coniuge divorziato.

In particolare è prevista la percezione di una quota pari al 40% del TFR, trattamento di fine rapporto, dell’altro coniuge calcolato sull’arco di tempo in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio.

Per trattamento di fine rapporto o liquidazione, si intende un importo spettante al lavoratore nel momento in cui viene meno il rapporto di lavoro subordinato.

Affinché il lavoratore divorziato sia tenuto a versare una parte del suo TFR all’ex coniuge, devono sussistere determinate condizioni:

  1. l’ex coniuge che richiede la quota di TFR del coniuge divorziato può aver deciso di convivere con una terza persona dopo il divorzio, ma non deve essersi risposato;
  2. il lavoratore divorziato è già tenuto a versare un assegno divorzile a cadenza periodica all’ex coniuge che fa richiesta della quota di TFR.

In altre parole, se l’ex coniuge non ha diritto all’assegno perché non lo ha mai avuto o perché è stato revocato in seguito a modifica delle condizioni economiche oppure ancora lo ha ricevuto in un’unica soluzione, non avrà alcun diritto alla quota del TFR del coniuge divorziato.

Come e quando fare domanda per la quota di TFR

Il TFR del coniuge divorziato può maturare prima o dopo la pronuncia della sentenza di divorzio che stabilisce le tutele e i versamenti che spettano ai due coniugi in via di divorzio.

Se il TFR è maturato prima di tale data il diritto alla quota viene dichiarato dalla sentenza di divorzio stessa da parte del Tribunale di riferimento.

Se il TFR matura dopo la sentenza di divorzio, il coniuge interessato alla quota deve fare istanza al Tribunale affinché il suo diritto a percepire tale quota sia accertato e riconosciuto.

Il Tribunale valuterà se al momento della richiesta sono soddisfatte le condizioni di cui sopra, ossia se l’ex coniuge che ha avanzato la richiesta stessa già percepisce un assegno divorzile periodico e se il suo stato civile è libero e successivamente procederà alla divisione delle quote del TFR del coniuge divorziato.

Il calcolo della quota di TFR del coniuge divorziato

È bene sottolineare che la legge sul Divorzio stabilisce che la quota di TFR dovuta all’ex coniuge divorziato corrisponde al 40% dell’indennità totale “riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio”.

Questo significa che il divorziato non ha diritto al 40% dell’intero TFR ma che la quota a lui spettante va calcolata sulla durata del matrimonio coincidente con quella del rapporto di lavoro.

L’arco di durata del matrimonio comprende, come nel caso del calcolo della pensione di reversibilità, anche il periodo di separazione legale dei due coniugi.

Divorzio giudiziale

divorzio giudiziale

Quando i due coniugi non trovano un accordo si ricorre al procedimento di divorzio giudiziale

Quando i due coniugi non trovano un accordo su tutte le condizioni di divorzio, patrimoniali e non solo, oppure quando uno dei due coniugi non ha intenzione di concedere all’altro coniuge il divorzio, si rende necessaria l’instaurazione di un procedimento di divorzio giudiziale presso il Tribunale di riferimento.

Come nel caso della separazione giudiziale, il divorzio giudiziale si avvia nel momento in cui le due parti non riescono a raggiungere un accordo, cosa che invece accade nel divorzio congiunto o consensuale.

Il motivo del mancato accordo risiede molto spesso nelle diverse esigenze e richieste in materia di mantenimento del coniuge più debole, affidamento e mantenimento dei figli, assegnazione della casa familiare, divisione dei beni residui, ecc.

Si procede con il divorzio giudiziale anche nel caso di un coniuge intenzionato a porre fine al matrimonio in disaccordo con l’altra parte.

In tale caso il primo procede alla presentazione della domanda di divorzio al giudice competente e con l’assistenza di un legale cita in Tribunale il coniuge opponente, chiedendo al Giudice di deliberare sulle domande e questioni proposte.

Tempi del divorzio giudiziale

Rispetto alla procedura di divorzio congiunto, che trova compimento solitamente nel giro di 4 mesi dal deposito della domanda, il divorzio giudiziale ha una durata mediamente maggiore, a seconda della conflittualità dei coniugi e del carico di lavoro del Tribunale.

In alcuni casi si può concludere anche alla prima udienza, se il Giudice accetta tutte le richieste effettuate da una delle parti.

In linea di massima però si tratta di una vera e propria causa civile che, mediamente, dura fino a uno o due anni.

La domanda di divorzio

La richiesta di divorzio giudiziale o contenzioso può essere presentata nel momento in cui sussiste uno dei casi previsti dalla Legge sul Divorzio, quando si è di fronte all’impossibilità di mantenere o ricostituire la comunione spirituale o materiale fra i coniugi.

La domanda di divorzio giudiziale deve contenere:

  • l’esposizione dei fatti ed elementi di diritto sui quali si fonda la domanda;
  • il riferimento a figli di entrambi i coniugi;
  • la richiesta di assunzione di eventuali mezzi di prova (prova testimoniale, perizia, ecc.);
  • le dichiarazioni dei redditi degli ultimi tre anni di entrambi i coniugi;
  • l’estratto per riassunto dell’atto di matrimonio;
  • il certificato di residenza e lo stato di famiglia di entrambi i coniugi;
  • la copia autentica del provvedimento conclusivo del procedimento di separazione;

Una volta ricevuta la domanda il presidente del Tribunale di riferimento fissa con decreto la data dell’udienza di comparizione dei coniugi, durante la quale cercherà di conciliare le parti per giungere ad un accordo di massima.

Qualora la conciliazione fallisca viene designato il Giudice Istruttore e fissata la data della nuova udienza di fronte a quest’ultimo.

Inizia così la fase istruttoria che si conclude con una sentenza impugnabile in appello, dove le condizioni di divorzio possono venire modificate o annullate.

 

Divorzio congiunto

divorzio congiunto

Quando le parti trovano un accordo su tutte le condizioni si procede al divorzio congiunto o consensuale

Il divorzio congiunto (o consensuale) in particolare è la procedura che permette ai coniugi separati, che abbiano raggiunto un accordo tra di loro, di ottenere lo scioglimento del matrimonio civile o la cessazione degli effetti civili del matrimonio religioso in tempi brevi e con costi limitati. In generale, invece, il divorzio è l’istituto giuridico che permette lo scioglimento del matrimonio e quindi la cessazione effettiva di tutti i diritti civili che da esso derivano.

La procedura richiede tempi diversi in base al tipo di separazione che lo ha preceduto:

  • In caso di separazione giudiziale devono essere trascorsi dodici mesi dalla data dell’udienza in cui i coniugi sono stati autorizzati dal giudice a vivere separati;
  • in caso di separazione consensuale devono invece essere trascorsi sei mesi dalla data dell’udienza in cui i coniugi sono stati autorizzati dal giudice a vivere separati.

In caso di divorzio congiunto l’assistenza di un legale difensore è obbligatoria; una volta che i due coniugi hanno raggiunto l’accordo su tutte le condizioni di scioglimento del matrimonio, da quelle patrimoniali a quelle sull’affidamento dei figli e del loro mantenimento, si può procedere con la domanda di divorzio consensuale.

La domanda di divorzio congiunto 

La domanda di divorzio deve contenere una serie di informazioni e documenti tra cui:

  • le generalità dei coniugi;
  • la copia di un documento di identità di entrambi i coniugi;
  • la copia del codice fiscale di entrambi i coniugi;
  • il certificato di residenza e lo stato di famiglia di entrambi i coniugi;
  • l’oggetto della domanda;
  • il riferimento al tribunale che deve pronunciarsi sulla questione;
  • l’esposizione degli elementi su cui si fonda la domanda di scioglimento di matrimonio;
  • l’esistenza di figli legittimi, legittimati o adottati da entrambi i coniugi.
  • l’estratto integrale dell’atto di matrimonio, da richiedere presso il Comune in cui si è celebrato il matrimonio;
  • la copia autentica del verbale di udienza e omologa di separazione, rilasciata dalla Cancelleria del Tribunale dove si è tenuta l’udienza di separazione personale dei coniugi.

In caso di divorzio congiunto con negoziazione assistita, in presenza di figli minorenni o maggiorenni ma non economicamente indipendenti, sarà necessario avere anche la dichiarazione dei redditi degli ultimi tre anni di entrambi i coniugi.

I vantaggi del divorzio congiunto

Il divorzio congiunto è vantaggioso per i coniugi stessi; è infatti più veloce e meno costoso.

Inoltre esso si fonda su un accordo scritto a cui si giunge attraverso un confronto tra le parti e le loro rispettive esigenze, ed è quindi meno traumatico per tutti, figli compresi.

I tempi per ottenere la sentenza di divorzio in caso di procedura di divorzio congiunto sono relativamente brevi e vanno da meno di due mesi per i piccoli centri fino a tre mesi circa dal deposito della domanda per i tribunali più grandi.

 

 

 

Passaporto dei figli: vademecum per i genitori separati o divorziati

passaporto dei figli

Le nuove regole in materia di rilascio o di rinnovo del passaporto dei figli in caso di minorenni con genitori divorziati

La prima cosa da sapere sul rinnovo del passaporto dei figli è che fino al 27 giugno 2012 era possibile effettuare l’iscrizione del minore sul passaporto del genitore, ma che oggi questa procedura non è più valida e da questa data il minore più viaggiare all’estero solo con un documento di viaggio personale. I passaporti dei genitori con iscrizione dei figli minorenni rimangono validi solo per il titolare del passaporto fino a naturale scadenza.

Il passaporto dei figli diventa quindi un documento individuale a parte e si rende necessario per l’espatrio fuori dai confini europei, mentre per i Paesi UE è sufficiente, come per gli adulti, la carta di identità valida per l’espatrio.

Il passaporto dei figli ha due diverse tipologie di validità al fine di garantire l’aggiornamento della fotografia e quindi una maggiore sicurezza per i minori in viaggio; ha quindi validità triennale da 0 a 3 anni e validità quinquennale da 3 a 18 anni.

La domanda per il passaporto dei figli

Il sito di Agenda Passaporto è il nuovo servizio della Polizia di Stato per richiedere online il passaporto e prenotare giorno e luogo per presentare la domanda stessa, evitando così lunghe file negli uffici di polizia.

Nel caso di passaporto per un minore uno dei due genitori deve prendere appuntamento a suo nome e compilare poi tutte le altre parti con i dati del minore stesso.

La documentazione necessaria per il passaporto dei figli 

Al momento dell’appuntamento presso gli Uffici di Polizia si deve presentare la seguente documentazione:

  • il modulo stampato della richiesta passaporto firmato dai genitori;
  • un documento di riconoscimento valido del minore;
  • due foto formato tessera identiche e recenti;
  • il contributo amministrativo da€ 73,50 sotto forma di valore bollato;
  • la ricevuta di pagamento a nome del minore di € 42,50 per il passaporto ordinario.

Perché la domanda di rilascio del passaporto dei figli venga accettata deve essere presente il richiedente, anche se minore, al fine di legalizzare la sua fotografia e procedere al riconoscimento.

Genitori divorziati e rilascio passaporto dei figli

Per richiedere il passaporto dei figli minori è necessario l’assenso di entrambi i genitori  siano essi conviventi, genitori naturali, coniugati oppure separati o divorziati.

Anche nel caso di genitori divorziati infatti è necessaria la presenza di entrambi e il loro assenso.

Questi devono presentarsi presso l’ufficio per il rilascio della domanda e firmare l’assenso davanti al Pubblico Ufficiale che ne autentica le firme.

In mancanza dell’assenso dei genitori si deve essere in possesso del nulla osta del Giudice tutelare.
Qualora uno dei due genitori sia impossibilitato a presentarsi per la dichiarazione e la firma dell’assenso, il richiedente può allegare una fotocopia del documento del genitore assente firmato in originale e una dichiarazione scritta di assenso all’espatrio firmata anch’essa in originale.

Passaporto dei genitori separati

Un’attenzione particolare è rivolta dalla Legge al passaporto di genitori separati o divorziati con figli minori; al fine dell’ottenimento del passaporto in questi casi infatti, secondo l’articolo 3 della Legge 21/11/1967, n. 1185 è necessario il consenso dell’altro coniuge.

Questo consenso è una forma di tutela nei confronti dei minori e ha lo scopo di evitare per esempio che il genitore tenuto al mantenimento del figlio si trasferisca all’estero rendendosi irreperibile.

In caso di mancato consenso da parte dell’altro coniuge, colui che vuole fare richiesta del passaporto ha diritto di rivolgersi al Giudice tutelare, che in assenza di gravi e comprovati motivi, darà l’assenso al rilascio del documento.

 

Divorzio breve: ecco le novità

divorzio breve

Tempi più rapidi, scioglimento anticipato della comunione dei beni e negoziazione: ecco le novità del divorzio breve

La legge n. 898/1970 sul divorzio sancisce i casi in cui il divorzio è consentito e prevede il passaggio obbligatorio attraverso la separazione legale dei coniugi, cioè un periodo di tempo durante il quale il rapporto matrimoniale non è sciolto ma sospeso, in attesa di una riconciliazione o, appunto, del divorzio definitivo.

Dopo la nuova legge sul divorzio breve del maggio 2015 il periodo di durata della separazione è sceso a dodici mesi, dopo i quali è possibile procedere con il divorzio vero e proprio.

I tempi per il divorzio breve

La nuova legislazione sul divorzio breve mira sostanzialmente ad abbattere i tempi estremamente lunghi delle pratiche di separazione e divorzio in Italia.

Fino ad ora infatti le coppie che intendevano divorziare dovevano aspettare tre anni per ottenere il divorzio: questo per dare il tempo ai coniugi di riflettere sulla loro decisione, nella speranza di una riconciliazione.

L’obiettivo della legge sul divorzio breve è di arrivare a un massimo di un anno tra separazione e divorzio definitivo.

La novità più importante introdotta dalla l. n. 55/2015 è dunque l’abbreviazione dei termini, prima di tre anni in ogni caso, che devono intercorrere tra separazione e divorzio; nulla è invece cambiato in riferimento ai presupposti e ai motivi della domanda e all’iter per l’ottenimento del divorzio stesso.

Scioglimento anticipato della comunione dei beni

Tra le novità della nuova legge sul divorzio breve c’è anche la modifica dei tempi di scioglimento della comunione dei beni.

Mentre prima la comunione dei beni si considerava sciolta solo al momento del passaggio in giudicato della sentenza di separazione, con la nuova legge lo scioglimento della comunione dei beni  è anticipato al momento in cui il Presidente del Tribunale autorizza la coppia a vivere separata in caso delle separazioni giudiziali o alla data di sottoscrizione del verbale di separazione omologato per le separazioni consensuali.

In caso di separazione consensuale i coniugi potranno richiedere il divorzio dopo sei mesi dal momento in cui la separazione è definita con l’omologa.

Nel caso invece di separazione giudiziale i coniugi dovranno attendere un anno dalla pronuncia della separazione con sentenza passata in giudicato.

Resta valido invece il requisito della mancata interruzione della separazione: la separazione deve essere infatti “protratta ininterrottamente” per un determinato periodo di tempo per poter richiedere il divorzio.

 La negoziazione assistita

Trascorso il termine abbreviato, di sei mesi in caso di consensuale e dodici in caso di giudiziale, i coniugi che intendono divorziare possono anche decidere di non rivolgersi a un Tribunale ma utilizzare gli istituti della negoziazione assistita introdotti dal d.l. n. 132/2014.

In questo caso i coniugi arrivano liberamente a un accordo per la cessazione del rapporto matrimoniale presentandosi in Comune e firmando l’accordo stesso davanti all’Ufficiale di Stato Civile.

Questa procedura è possibile solo se i coniugi non hanno figli minori, maggiorenni incapaci o economicamente non autosufficienti ovvero portatori di handicap grave.

Nei casi appena citati si deve invece procedere al divorzio con la negoziazione assistita, ovvero con l’assistenza di due legali, uno per parte, che affiancano i coniugi nel raggiungimento dell’accordo di divorzio.