Ostacolare il diritto di visita: cosa dice la Corte di Cassazione

ostacolare il diritto di visita

La Corte di Cassazione respinge il ricorso della madre ad ostacolare il diritto di visita del padre

In poche parole, se l’ex moglie impedisce le visite tra padre e figlio viene sanzionata. In caso di separazione fra coniugi, infatti, non è sempre semplice mantenere un atteggiamento civile e pacato l’uno nei confronti dell’altro: eliminare i comportamenti aggressivi ed ostili diventa però estremamente importante quando dal matrimonio sono nati dei figli, che finiscono per rischiare di restare coinvolti nelle beghe dei genitori in via di separazione.

E’ infatti importanti per i figli essere messi nelle condizioni ottimali per mantenere rapporti sereni e pacifici sia con il padre che con la madre, qualunque siano gli accordi per la loro cura e gestione derivati dalla separazione: fa parte dei precisi doveri dei genitori fare il possibile per accompagnare lo sviluppo e la crescita della personalità dei figli senza creare conflitti o traumi.

Questi principi sono tutelati anche dalla legge: è esemplificativa una sentenza della Corte di Cassazione, che ha respinto il ricorso di una madre condannata a pagare una multa perché insisteva nell’ostacolare il diritto di visita del padre.

1.000 euro di multa per la madre che impedisce al padre di vedere i figli

Nel caso in oggetto il Tribunale di Messina, conscio della situazione non armoniosa fra gli ex coniugi, aveva stabilito che l’affido delle due figlie fosse congiunto (con domiciliazione presso la casa coniugale che era rimasta alla madre), ammonendo fin dal principio entrambe a impegnarsi ad agevolare il rapporto delle bambine con l’altro genitore evitando atteggiamenti che potessero compromettere le modalità del loro affidamento.

La madre delle bambine però iniziava fin da subito ad ostacolare il diritto di visita all’ex marito con vari espedienti: nonostante il Tribunale avesse stabilito che le visite paterne dovevano avvenire senza la madre e fuori dalla casa coniugale, la donna si opponeva a questa circostanza spiegando che in particolare una delle figlie avendo sofferto molto per la separazione non amava restare senza la madre ed essere portata fuori casa dal padre.

Inoltre accusava l’ex marito di disinteresse verso la prole, di scarsa comunicatività e di violazione degli accordi economici e chiedeva infine l’affidamento esclusivo delle figlie.

Nessuna delle richieste dell’ex moglie veniva assecondata, fondamentalmente perché ritenute infondate le accuse a carico del padre e anche perché il suo ostacolare il diritto di visita la metteva in una posizione di pregiudizio automatico: la Corte d’Appello le infliggeva una ammenda di 1.000 euro che lei contestava, rivolgendosi alla Corte di Cassazione.

La Cassazione rifiutava il suo ricorso, ritenendo giuste e motivate le decisioni della Corte d’Appello e la condannava -insieme all’ex marito- anche al pagamento delle spese legali.

Ostacolo al diritto di visita: le conseguenze

Ostacolare il diritto di visita è una infrazione grave ai termini di accordo stabiliti fra coniugi in Tribunale ed è punibile anche con sanzioni pecuniarie.

L’art. 709 ter del cc prevede infatti che in caso di inadempienze o atti che ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento dei figli minori, il giudice può:

  • ammonire il genitore inadempiente
  • condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione pecuniaria, da 75 euro fino a 5.000 euro
  • disporre il risarcimento del genitore nei confronti del figlio
  • disporre il risarcimento di un genitore nei confronti dell’altro

Sentenza di separazione troppo generica? Allora il processo va rifatto

sentenza di separazione

Nel caso in cui la sentenza di separazione è troppo generica la Cassazione costringe la Corte d’Appello a riesaminare il caso

Una sentenza di separazione generica è un motivo valido per chiedere che il processo venga ripetuto: è quanto ha stabilito la Corte di Cassazione sul caso di due coniugi che si erano presentati in Tribunale per una separazione personale.

Una sentenza di separazione generica può essere annullata

A presentare il ricorso è stata l’ex moglie, lamentando un assegno di mantenimento insufficiente per le due figlie nate dal matrimonio (850 euro mensili) e anche l’indifferenza dei giudici di merito alle sue osservazioni sulla condotta del marito, che motivavano una richiesta di separazione con addebito e di un assegno di mantenimento anche per sé stessa.

Richieste a cui la Corte d’Appello non aveva dato seguito.

La sentenza di primo grado era infatti sfavorevole alla moglie: i giudici ritenevano che i comportamenti denunciati dalla donna fossero troppo antecedenti alla fine del matrimonio e non potessero essere indicati come reale motivazione della fine del matrimonio (o come motivo dell’intollerabilità della convivenza, condizione indispensabile per decidere la separazione con addebito a scapito di uno dei coniugi)

La Corte di Cassazione accoglieva invece la domanda della ricorrente, soprattutto perché le sue osservazioni erano validate da prove e da elementi certi, mentre la sentenza di separazione appariva estremamente generica e apodittica.

La donna infatti parlava chiaramente di infedeltà coniugali e di episodi di violenza da parte del marito, recenti e circostanziati, presentando prove e testimoni.

Inoltre i giudici della Corte di Appello non avevano tenuto neanche in adeguata considerazione la situazione economica dei coniugi e la divisione degli oneri per il mantenimento delle figlie, rilasciando anche in questo caso una valutazione inadeguata.

Per questa ragione la Corte di Cassazione ha deciso che la sentenza di separazione dovesse essere annullata e che la Corte d’Appello, in una diversa composizione, avrebbe dovuto affrontare di nuovo la questione esaminandone i diversi aspetti con un’adeguata requisitoria.

Nella motivazione, la Corte di Cassazione esponeva chiaramente le colpe della Corte di Appello che aveva rilasciato una sentenza troppo generica, fornendo un precedente importante in merito: laddove esistono fatti circostanziati che possono portare ad una sentenza di separazione con addebito, alla modifica delle cifre degli assegni di mantenimento o alla loro ammissibilità, questi vanno tenuti in considerazione per prendere la miglior decisione possibile di fronte ai coniugi e ai loro figli.

Una sentenza di separazione generica può essere impugnata ed annullata, costringendo così i giudici di merito a riesaminare il caso.

Separazione personale: le caratteristiche

La separazione personale richiesta dai coniugi è una forma specifica di separazione, che prevede come base l’insostenibilità della convivenza e il grave pregiudizio per l’educazione dei figli: pur restando inalterato il vincolo matrimoniale, cessa l’obbligo della coabitazione e si attivano gli stessi diritti legati ad una separazione consensuale o giudiziale, quindi l’assegno di mantenimento, la gestione e il mantenimento condiviso dei figli e la possibilità di richiedere la separazione con addebito.

Mantenimento al coniuge per l’elevato tenore di vita durante il matrimonio

mantenimento al coniuge

Nel mantenimento al coniuge, per esempio, l’ex moglie deve versare 2.000 euro mensili al marito disoccupato

A dover farsi carico del mantenimento al coniuge più debole, dopo la separazione, è tipicamente il marito: questo perché sono le donne in generale, almeno nel nostro paese, a farsi maggiormente carico della famiglia e spesso a dover lasciare il lavoro o a rinunciare alle proprie aspirazioni professionali per motivi familiari.

Per questa ragione spesso sono le donne le destinatarie dell’assegno di mantenimento: non è però sempre così, esistono le eccezioni, e a volte possono essere clamorose.

Un mantenimento da 2000 euro per il marito dopo il divorzio

La Corte di Cassazione si è trovata ad esaminare il caso della separazione di due coniugi, dove la moglie rappresentava il lato economicamente forte della coppia in virtù dei suoi introiti: con la separazione al marito venivano concessi 500 euro mensili, una misura che lui contestava in appello ritenendola insufficiente a mantenere lo stile di vita precedente alla separazione.

In Appello venivano riconosciuti al marito prima 800 euro mensili, in seguito al licenziamento di lui dall’azienda dove lavorava e la conseguente messa in mobilità, e poi dopo la sentenza di divorzio la cifra veniva fissata a 2.000 euro di mantenimento al coniuge da parte dell’ex moglie.

La moglie ricorreva in Cassazione contro il provvedimento, spiegando le sue ragioni: affermava infatti che la sua disponibilità economica era riconducibile ad una grossa somma posseduta su un conto in banca (circa 3 milioni di euro a cui aveva accesso anche suo padre) e che oltre a quella cifra lei non aveva redditi fissi essendo una casalinga disoccupata che doveva mantenere interamente anche i due figli nati dal matrimonio.

La donna faceva quindi notare che la cifra conservata in banca era destinata solo a diminuire e le sarebbe dovuta bastare al sostentamento per tutta la sua vita: inoltre accusava l’ex marito di non essere stato licenziato ma di aver chiesto di entrare in mobilità e faceva presente che lui poteva contare su entrate economiche dovute al lavoro -saltuario- come disc jockey.

Nonostante le obiezioni sollevate, la Cassazione respingeva ogni ricorso e confermava alla donna l’obbligo di provvedere al mantenimento al coniuge, sostenendo comunque il principio che il tenore di vita dopo la separazione dovesse rispecchiare quello precedente e contestando la mancanza di prove sulla reale occupazione -o disoccupazione- dell’ex marito.

Assegno di mantenimento al coniuge: come viene calcolato

Il mantenimento al coniuge è dovuto laddove ne sia stata fatta richiesta ed esistano i presupposti per ottenerlo: il coniuge richiedente deve dimostrare di essere la parte debole economicamente della coppia e di non essere in grado di sostenere sé stesso, mantenendo lo stesso livello di vita goduto dopo il matrimonio.

Il mantenimento viene dunque calcolato tenendo presenti i proventi dell’attività lavorativa e altre fonti di ricchezza sia del richiedente che del coniuge che deve farsene carico: viene valutata anche la capacità e l’attitudine al lavoro del richiedente, partendo dall’età, l’esperienza lavorativa, le condizioni di salute e il tempo che è intercorso dall’ultima prestazione di lavoro.

Inoltre il giudice verifica se i mezzi economici a disposizione del richiedente possano consentire di mantenere un livello di vita simile al precedente indipendentemente dalla percezione dell’assegno: se così non è, deciderà l’importo dell’assegno cercando di equilibrare le esigenze.

 

 

 

Se lui è Il facoltoso professionista deve mantenere la propria ex anche se lei fa spese di lusso

mantenimento spese di lusso della ex moglie

Determinante la disparità economica comunque esistente fra i due ex coniugi

L’assegno di mantenimento è uno strumento messo a disposizione dalla legge per tutelare il coniuge più debole economicamente in caso di separazione e divorzio: viene calcolato in misura proporzionale allo stipendio del coniuge più abbiente e in linea di principio dovrebbe assicurare alla persona che lo percepisce di riuscire a mantenere lo stesso tenore di vita di cui godeva durante la vita matrimoniale.

Questo per impedire che il soggetto più debole, appunto, sia costretto a rimanere sposato temendo di non avere più assicurata la sussistenza o il tenore di vita al quale è abituato.

Sono essenzialmente due i principi su cui si basa l’erogazione dell’assegno di mantenimento: come detto, la conservazione di uno stile di vita simile a quello matrimoniale e la disparità economica fra i due coniugi.

Quando queste condizioni sono presenti, l’assegno viene attribuito ed è passibile di aggiustamenti in base alle modifiche della situazione patrimoniale degli ex coniugi.

Anche se l’ex moglie è ricca ha diritto all’assegno di mantenimento

La Corte di Cassazione, con la sentenza 1154/2015, ha dimostrato come le due condizioni sopra nominate siano molto importanti anche quando apparentemente la situazione è diversa: una donna si è vista negare l’assegno di mantenimento dopo il divorzio perché, secondo i giudici di merito, il suo stipendio le permetteva di mantenersi senza aiuti da parte del marito.

La donna percepiva infatti uno stipendio di 1200 euro, era l’assegnataria della casa coniugale e aveva recentemente comprato con il suo stipendio una macchina nuova ed uno scooter: i giudici territoriali avevano quindi disposto che il padre contribuisse economicamente ai bisogni dei due figli ma non a quelli della moglie, giudicata autonoma.

L’ex moglie ricorreva quindi alla Corte di Cassazione rivendicando il suo diritto all’assegno di mantenimento: e la Corte le dava ragione in virtù della disparità economica esistente fra lei e l’ex marito.

Il fatto che lei guadagnasse un buon stipendio e vivesse nella casa coniugale (di proprietà dei genitori di lui) non era importante a paragone dell’importante disparità economica presente fra lei e l’ex marito, un libero professionista con una capacità economica molto elevata.

Per questa ragione il ricorso della signora veniva accettato e la sentenza di primo grado annullata.

Assegno di mantenimento: quando spetta e quando no

Il diritto all’assegno di mantenimento decade quando ad uno dei due coniugi viene addebitata la separazione, oppure quando si risposa.

Inoltre, sono sempre possibili revisioni basate su modifiche sensibili delle capacità economiche di uno o dell’altro coniuge: miglioramenti o decadimenti della situazione monetaria possono dare luogo a conseguenti modifiche.

In alcuni casi basta anche una convivenza more uxorio a far perdere il diritto all’assegno di mantenimento: è però necessario dimostrare che la nuova famiglia di fatto creata dall’ex coniuge sia una famiglia a tutti gli effetti, basata su principi e valori simili a quella della famiglia legittima, e che abbia portato alla rescissione dei legami con la precedente vita familiare.

Addebito della separazione al marito traditore

addebito della separazione al marito traditore

L’addebito della separazione al marito traditore è valido quando l’infedeltà causa la crisi

Sarebbe scontato supporre che l’infedeltà coniugale sia uno dei principali motivi che porta alla separazione con addebito ai danni dell’infedele: nonostante questo sia in linea di massima corretto, a volte i giudici (sia di merito che in Cassazione) hanno respinto richieste di addebiti per infedeltà.

Questo perché in realtà, per ottenere l’addebito della separazione al marito traditore è necessario che il tradimento effettivo sia stato consumato in un periodo compatibile alla crisi di coppia e che possa essere quindi stabilito con certezza che sia il motivo della fine del matrimonio.

Per determinare infatti l’effettivo addebito, va dimostrato che l’intollerabilità della convivenza (elemento alla base della separazione) sia ascrivibile senza dubbio all’infedeltà coniugale.

Il tradimento davanti alla legge: quando è riconosciuto l’addebito

La Corte di Cassazione in passato ha già considerato il tradimento come una forma dell’espressione della libertà personale di autodeterminazione nelle relazioni amorose, tutelata dall’articolo 2 della Costituzione: nel caso in cui si deliberava su quel particolare frangente, però, si parlava di persone fidanzate e non ancora sposate (sentenza n. 11467/2015)

Sebbene quindi la crisi matrimoniale non possa essere imputata in automatico all’infedeltà, ci sono alcuni casi in cui la condotta del fedifrago è abbastanza evidente da portare ad un addebito della separazione al marito traditore.

E’ il caso affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n.5108/ 2015: un ex marito si lamentava per l’addebito della separazione in quanto era stato sì infedele, ma anni prima che si verificasse la separazione.

L’uomo cercava quindi di smontare il nesso causale fra tradimento e separazione che era alla base della richiesta dell’ex moglie.

In questo caso però l’addebito della separazione al marito traditore è stata confermata: la Cassazione ha ritenuto giuste le considerazioni dei giudici di merito sulla colpevolezza del marito, anche perché era stato dimostrato, in sede di dibattimento, che anche poco prima della separazione l’uomo aveva tentato un approccio con un’altra donna fornendo false generalità.

Fatale al ricorrente, in questo caso, la certificata condotta di “habitué” del tradimento: se la scappatella coniugale è un modus vivendi, in altre parole, il nesso causale di cui la Corte ha bisogno per stabilire l’addebito della separazione al marito traditore è servito su un piatto d’argento.

Rapporti di causa-effetto nelle crisi matrimoniali

In altri casi, al contrario, la Cassazione ha dato ragione a mariti che erano riusciti a dimostrare che l’infedeltà era l’effetto e non la causa della crisi matrimoniale.

Di base l’addebito scatta quando si riesce a dimostrare che il matrimonio è finito perché uno dei due coniugi è contravvenuto ad uno degli obblighi sanciti dal patto matrimoniale e che questo è stato il motivo della crisi matrimoniale: non serve arrivare all’infedeltà, è anche sufficiente riuscire a certificare comportamenti ingiusti e vessatori, che fanno venire meno il patto di solidarietà morale stipulato fra i due coniugi.

Addebito della separazione al coniuge dispotico

addebito della separazione

Un atteggiamento che infrange l’affectio coniugalis è sufficiente a causare l’addebito della separazione

Se in una coppia il marito vuole comandare, è prepotente anche sul lavoro e vuole avere sempre l’ultima parola, la moglie può ottenere che l’addebito della separazione ricada su di lui: è quanto ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza 8094/2015.

Il caso specifico riguarda due coniugi che gestivano insieme anche un’attività commerciale: quando hanno deciso di mettere fine al matrimonio lei ha chiesto l’addebito della separazione al marito, adducendo come causa il suo comportamento dispotico sul lavoro, dove le impediva di prendere alcuna decisione finendo, nei fatti, a gestire da solo questa attività.

I giudici di merito hanno dato torto, ma quando la donna ha presentato ricorso davanti alla Corte di Cassazione, questo è stato accolto.

La Cassazione ha infatti ricordato che alla base della vita familiare deve esserci collaborazione e accordo reciproco e che se i coniugi gestiscono insieme un’attività economica dalla quale traggono i mezzi di sostentamento della famiglia, sono tenuti a collaborare in posizione paritaria, collaborando di comune accordo e senza prevaricazioni di un coniuge sull’altro.

L’atteggiamento del marito, che invece assumeva un comportamento dispotico che alla lunga ha contribuito a infrangere l’affectio coniugalis, è stato visto dalla Corte anche come un tentativo di approfittarsi della posizione di dipendenza psicologica della moglie.

Per questo la Cassazione ha deciso di dare ragione alla donna e imputare al marito la separazione con addebito.

Addebito della separazione: di che si tratta

L’addebito della separazione consiste nell’accertamento, in fase giudiziale, che il matrimonio è finito per colpa dei comportamenti di uno dei coniugi, che è contravvenuto ai doveri coniugali previsti dall’art. 143 del Codice Civile (fedeltà reciproca, assistenza morale e materiale, collaborazione nell’interesse della famiglia e di coabitazione).

Nel caso affrontato prima, è stato sufficiente che il marito non adempisse al dovere dell’assistenza morale, trattando la moglie in modo prepotente e dispotico, per far decidere alla Corte di Cassazione di addebitare a lui la separazione.

Per imputare l’addebito della separazione ad uno dei coniugi è comunque necessario che il comportamento incriminato sia iniziato prima della fine della relazione e che esista un dimostrabile rapporto di causa-effetto fra la condotta del coniuge e la sopraggiunta intollerabilità della convivenza.

Le conseguenze dell’addebito della separazione sono di carattere prevalentemente patrimoniale: il coniuge ritenuto “colpevole” non potrà godere dell’assegno di mantenimento ma soltanto degli alimenti (che spettano solo in caso di bisogno alimentare, mentre il mantenimento è volto a mantenere, per l’appunto, il tenore di vita della vita matrimoniale).

Inoltre il coniuge a cui è stato addebitato l’addebito della separazione perde anche i diritti successori nei confronti dell’altro: anche in questo caso però, se godeva degli alimentai legali da parte del coniuge defunto, avrà comunque diritto ad un assegno vitalizio che verrà sottratto all’eredità.

Se invece la separazione non viene effettuata con addebito, il coniuge che rimane in vita ha gli stessi diritti ereditari del nuovo eventuale coniuge del defunto.

 

Accordi economici fra ex coniugi: il giudice non è vincolato in presenza di figli

accordi economici fra ex coniugi

Quando il Tribunale può rifiutarsi di omologare gli accordi economici fra ex coniugi nella separazione consensuale

Quando si opta per la separazione consensuale è necessario che avvengano degli accordi economici fra ex coniugi e che questi si mettano d’accordo su ogni singolo aspetto della separazione: solo se questo avviene si può passare allo step successivo e il Tribunale deve limitarsi a prendere atto delle decisioni della coppia.

Accordi economici fra ex coniugi: limiti imposti dal Tribunale

Anche gli accordi economici fra ex coniugi devono essere del tutto consensuali e solo in quel caso vengono omologati, evitando le lungaggini e le spese di una separazione giudiziale.

Questa possibilità di accordo viene data alla coppia in base all’orientamento prevalente in giurisprudenza, che vede la concezione di famiglia farsi sempre più “privatizzata” e “privatistica” e lascia margini di autonomia e negoziabilità ai rapporti personali.

Ci sono però dei limiti alla libertà, molto ampia per la verità, degli accordi economici fra ex coniugi: il più importante è la salvaguardia dell’interesse della prole, secondo l’art. 711 del c.p.p, in virtù della quale il giudice ha il diritto di intervenire in modo incisivo.

Secondo l’art. 711, infatti, la separazione consensuale acquista efficacia solo con l’omologazione del Tribunale, che si deve svolgere nel luogo di residenza dei due coniugi.

Gli accordi economici fra ex coniugi devono contenere alcuni elementi essenziali come il consenso a vivere separati e le decisioni relative al mantenimento del coniuge più debole e della prole, oltre alla loro educazione.

Questo accordo è un atto di autonomia privata che il tribunale non può modificare: esso è deputato al solo controllo di legalità e opportunità.

Il Tribunale può intervenire rifiutando l’omologazione solo nel caso in cui non vengano rispettati i diritti della prole, quindi nel caso in cui i genitori non adempiano ai loro doveri nei confronti dei figli.

Doveri dei genitori nei confronti dei figli

I genitori hanno “l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli”: un obbligo che non viene certamente meno a causa di una eventuale separazione.

I doveri dei genitori sono elencati nell’art.30 della Costituzione e ripresi dall’art. 147 c.c: sintetizzando, soprattutto quando si parla degli accordi economici fra ex coniugi, va sottolineato che i genitori anche separati devono contribuire al mantenimento della prole in modo proporzionale alle proprie possibilità, tenendo presenti non solo gli aspetti puramente materiali ma anche quelli attinenti alla sfera sociale ed affettiva.

Se nel corso del tempo, come è naturale, le esigenze dei figli cambiano con la crescita, anche la contribuzione economica dei genitori deve cambiare per assecondare le mutate esigenze: le attuali esigenze del figlio considerate dai giudici nel calcolare l’ammontare dell’assegno di mantenimento sono infatti rapportate al contesto sociale e patrimoniale dei genitori e collegate alla determinazione delle accresciute esigenze personali, di relazione, scolastiche, sportive, sociali e ludiche.

Occultare le condizioni economiche: le conseguenze sulla separazione

occultare le condizioni economiche

Oltre al dolo anche occultare le condizioni economiche può scatenare la revoca della separazione

La sentenza di separazione e di divorzio, e i conseguenti accordi economici sottoscritti da entrambe le parti, non sono immutabili: occultare le condizioni economiche allo scopo di ingannare l’altro coniuge per ottenere un trattamento più favorevoli è infatti un motivo di revoca immediata di quanto pattuito davanti alla legge.

Nel caso in cui l’inganno venga scoperto, infatti, non solo si ha la revoca degli accordi per dolo e chi ha imbrogliato viene costretto a pagare quanto deve all’ex coniuge e agli eventuali figli, ma il colpevole risponderà anche, se è il caso, in sede penale della truffa perpetrata.

Simulazione di una vendita per imbrogliare l’ex moglie: un caso di revocazione

E’ questo il caso di un marito che aveva simulato la vendita della sua azienda alla nuova compagna, in modo da denunciare una situazione patrimoniale ben diversa da quella reale e dover versare un assegno più ridotto alla ex moglie: tra gli ex coniugi c’era un accordo, che il Tribunale ha recepito, ma quando è stato scoperto che l’uomo era riuscito ad occultare le condizioni economiche in modo truffaldino, automaticamente gli accordi sono stati revocati per dolo.

L’ex moglie è riuscita a dimostrare, successivamente all’accordo, che la società dell’ex marito era stata venduta falsamente e per una cifra irrisoria, al solo scopo di dichiarare una situazione economica differente dal vero e una capacità reddituale molto meno consistente della realtà: il Tribunale non ha rescisso l’accordo, ma ha revocato direttamente la pronuncia di separazione per dolo revocatorio.

Che cos’è la revocazione

Si tratta di uno strumento messo a disposizione dalla legge per impugnare sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado, allo scopo di ottenere una nuova valutazione del caso.

La revocazione può annullare anche una sentenza passata in giudicato.

E’ possibile chiederla quando:

  • la sentenza è effetto del dolo di una delle parti;
  • se le prove decisive sono state dichiarate false;
  • se sono stati trovati dopo la sentenza documenti decisivi
  • se la sentenza è effetto del dolo del giudice
  • se la sentenza è sorta da un errore di fatto
  • se la sentenza è contraria ad altra precedente sentenza

Occultare le condizioni economiche per evitare di dichiarare la propria reale situazione patrimoniale è una pratica purtroppo molto diffusa: è sufficiente infatti intestare beni a terze persone, imputare spese personali alla società per cui si lavora come fossero spese di rappresentanza o similari, simulare -come nel caso in oggetto- transazioni economiche per liberarsi di proprietà e beni, per vedere la propria situazione economica ridimensionata e ottenere il calcolo delle spese di mantenimento su quella situazione falsata.

L’accertamento di questo inganno è anche generalmente difficoltoso e si basa su presunzioni: occorre indagare sul tenore di vita del coniuge in questione anche esaminando le spese per viaggi o beni di lusso, basandosi su estratti conto e fatture, tenendo in considerazione anche gli studi di settore per confrontare i guadagni dichiarati dal libero professionista o titolare di azienda: occultare le condizioni economiche non è semplice ma non è neanche impossibile ed essere scoperti è più difficile perché la produzione di prove non è sempre possibile (ad esempio la Banca d’Italia può rispondere a domande di accertamento in questo senso, ma solo all’interno di un processo penale)

 

 

 

Spese straordinarie per i figli: no alla liquidazione forfettaria

spese straordinarie per i figli

L’assegno di mantenimento non può comprendere anche le spese straordinarie per i figli  

Quando un matrimonio finisce in divorzio, al centro del dibattere c’è spesso l’assegno di mantenimento, cioè quel contributo economico dovuto al coniuge più “debole” economicamente e ai figli nati dall’unione, che è da distinguere dalle spese straordinarie per i figli.  In genere l’assegno viene calcolato in base al reddito del coniuge più abbiente e le spese che deve coprire si dividono in ordinarie e straordinarie, al fine di permettere a coniuge e figli di continuare a mantenere lo stesso stile di vita avuto durante il matrimonio.

Cosa sono le spese straordinarie per i figli

Se per spese ordinarie si possono intendere l’acquisto di libri e materiale scolastico, il cibo, i vestiti, i medicinali e ogni altra spesa abituale, fra le spese straordinarie per i figli (sempre di difficile e controversa interpretazione) figurano interventi chirurgici, acquisto di occhiali o apparecchi ortodontici, ma anche di un motorino, lezioni di guida o ripetizioni scolastiche private.

Questo genere di spese sono dunque un argomento controverso e si finisce spesso per dibatterne davanti a giudici: soprattutto perché la giurisprudenza prevede che le decisioni di maggiore importanza che riguardano i figli, e che comportano esborsi economici, devono essere prese di comune accordo dai genitori.

No alla liquidazione forfettaria delle spese straordinarie: lo dice la Cassazione

Come possono essere infatti quantificate le spese straordinarie per i figli, o meglio per il loro mantenimento?

Per loro stessa definizione, le spese straordinarie sono spese impreviste ed imprevedibili: difficile quindi stabilire una cifra in modo univoco, soprattutto tenendo presente come fine ultimo il bene della prole.

E’ quanto accaduto fra due ex coniugi: l’assegno di mantenimento che spettava alla moglie per il mantenimento delle figlie veniva liquidato con una cifra forfettaria, tale da ricomprendere spese ordinarie e straordinarie, pari al massimo esigibile dal padre in base al suo reddito.

L’ex moglie ricorreva quindi alla Corte di Cassazione per chiedere che le spese straordinarie non venissero liquidate in modo forfettario, dal momento che in caso di effettiva emergenza per spesa straordinaria, per effetto cumulativo il padre non avrebbe sicuramente potuto contribuire in quanto già al limite delle proprie possibilità.

La Cassazione ha voluto innanzitutto ricordare il dovere della famiglia, anche quando si separa con un divorzio, di mantenere, istruire ed educare la prole: questo dovere obbliga ciascun coniuge a far fronte alle molteplici esigenze dei figli, di qualunque tipo, in misura proporzionale al proprio reddito e a quello dell’altro genitore, tenendo presente il tenore di vita vissuto dal figlio ai tempi della convivenza con entrambi i genitori.

Ha poi definito le spese straordinarie per i figli spese che, per la loro “rilevanza, imprevedibilità e imponderabilità” sono da considerare cosa altra dal regime quotidiano di vita dei figli che vengono mantenuti.

In conclusione quindi, sostiene la Cassazione, non è possibile includere le spese straordinarie per i figli nell’assegno di mantenimento, perché questo può rivelarsi in contrasto con il “principio di proporzionalità”.

Il ricorso dell’ex moglie è stato quindi accolto, soprattutto per fare in modo che i figli potessero essere aiutati nelle loro spese extra dal contributo paterno.

Assegno di mantenimento: diritto all’assegno divorzile e nuova convivenza

assegno di mantenimento

Famiglia legittima e famiglia di fatto: quando si perdono i privilegi sull’assegno di mantenimento?

E’ sufficiente iniziare una nuova convivenza dopo il divorzio per perdere il diritto all’assegno di mantenimento? Nonostante le richieste in questo senso siano molte, la giurisprudenza è sempre molto cauta al riguardo: la sola sussistenza di una convivenza more uxorio, infatti, non significa che l’ex coniuge a cui è stato accordato l’assegno di mantenimento debba perderlo automaticamente.

Assegno di mantenimento: quando si perde il diritto

Ogni caso va analizzato singolarmente, in base al suo contesto: la Corte di Cassazione ha avuto occasione di ribadire questo punto grazie alla sentenza n.6855.

E’ stato un ex marito a presentare ricorso perché ha visto assegnato all’ex moglie un assegno di mantenimento di mille euro, successivo ad una nuova convivenza more uxorio della donna, da cui sono nati anche altri due figli.

La circostanza veniva ribadita in primo grado ed in Appello e finiva di fronte ai giudici della Corte di Cassazione, Sezione Civile.

L’ex marito lamentava il fatto che i giudici di primo e secondo grado non avessero tenuto in considerazione il fatto che la sua ex moglie avesse intrapreso una nuova convivenza: i giudici di Cassazione hanno approfittato della sentenza per chiarire alcuni punti sulla convivenza more uxorio e la famiglia di fatto.

Di base la Corte ha tenuto a sottolineare che non basta la convivenza more uxorio per determinare la nascita di una nuova famiglia anche se di fatto, cioè non sancita dal matrimonio: è necessario un legame stabile e non aleatorio e un vincolo caratterizzato da “valori di stretta solidarietà, arricchimento e sviluppo della personalità di ogni componente della famiglia, e di educazione e istruzione dei figli”

La famiglia di fatto è infatti tutelata dall’art. 2 della Costituzione in quanto formazione sociale in cui il singolo cittadino può liberamente esprimersi: per essere definita tale ha bisogno di un progetto di vita comune portato avanti stabilmente dalla coppia.

Questa situazione, secondo la Cassazione, era presente nel nuovo stile di vita dell’ex moglie del ricorrente: con il nuovo compagno -padre dei suoi due figli- aveva infatti stabilito una forma di famiglia stabile e non aleatoria che recideva, di fatto, ogni confronto con il tenore di vita che aveva durante il precedente matrimonio.

Non solo: l’esistenza di una nuova famiglia taglia definitivamente i ponti con la vita matrimoniale precedente.

Il ricorso del marito veniva quindi accettato e all’ex moglie sospeso l’assegno di mantenimento.

Famiglia di fatto e matrimonio: differenze e “rischio”

La Corte di Cassazione ha comunque specificato che non basta una nuova convivenza per annullare tutti gli effetti del matrimonio pregresso, perché la famiglia di fatto non è valutata allo stesso modo di fronte alla legge rispetto a quella legittima: le decisioni vanno prese con cautela e caso per caso.

La costituzione di una nuova famiglia, seppur solo di fatto, viene considerata comunque come l’assunzione di un rischio, quindi l’assegno di mantenimento non viene sospeso nell’attesa che il nuovo legame si interrompa per poterlo poi richiedere, ma interrotto a tempo indeterminato.