Diritti dei successori del convivente

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Diritti del partner alla morte del convivente: la successione nella famiglia di fatto

Con l’espressione “convivenza more uxorio” viene indicata la convivenza stabile fra due persone, basata su motivi affettivi ma non suggellata dal matrimonio: al momento questa forma alternativa di famiglia, chiamata anche “famiglia di fatto” è in ascesa sia fra le coppie eterosessuali che fra quelle omosessuali (a cui non è permesso –in Italia- unirsi in matrimonio). Nonostante l’aumento delle famiglie di fatto, non esiste una vera e propria legislazione in materia.

Le lacune della giurisprudenza si fanno notare in particolare in occasione di momenti particolari della vita di coppia: l’acquisto di una casa, la separazione, la nascita di eventuali figli, la malattia o la morte.

Nel caso di morte di uno dei due partner, i diritti dei successori del convivente non sono gli stessi di un/una vedova/o.

Leggi di successione nella famiglia di fatto

I diritti successori del convivente sono limitati dall’assenza dello status di coniuge e quindi dalla tutela che da questo proviene. Il convivente rimasto in vita potrà ottenere una quota di eredità solo se specificatamente previsto dal testamento del defunto e sempre a patto che il lascito non vada a ledere la porzione che per legge spetta a determinati soggetti (ad esempio i figli).

I conviventi non hanno dunque diritti successori l’uno nei confronti l’uno dell’altro perché per la legge non sono vincolati da legami di parentela e sono da considerare estranei fra di loro. Tuttavia, al momento della stesura del testamento, ognuno dei due conviventi può nominare erede l’altro, nel rispetto dei diritti dei legittimi successori (eventuale coniuge o figli). E’ vietato invece redigere contratti con cui ci si impegna a nominare l’altro convivente come erede: la legge vieta i patti successori, che sono considerati nulli.

Diritti dei successori del convivente in caso di incidente o sinistro

In caso di morte del convivente conseguente ad un incidente stradale o sinistro di altro tipo per colpa di terzi, la legge riconosce anche al convivente more uxorio il risarcimento del danno da fatto illecito, sia esso morale o materiale. Per ottenere il risarcimento del danno materiale, il convivente deve dimostrare lo stabile contributo economico che il convivente deceduto apportava in vita e l’esistenza di una relazione stabile e caratterizzata dalla reciproca assistenza.

La casa comune: i diritti del convivente superstite

I diritti dei successori del convivente superstite sulla casa comune sono limitati dall’impossibilità per i conviventi, quando tutti e due in vita, di assicurarsi l’un l’altro l’uso futuro della casa comune nell’eventualità della morte di uno dei due (si tratterebbe di un patto successorio, vietato dalla legge).

E’ stato comunque stabilito da una sentenza della Cassazione il diritto del convivente more uxorio a continuare ad abitare nell’immobile considerato casa comune: questo è avvenuto con la pronuncia di illegittimità costituzionale di una parte dell’art. 6, comma 1 della Legge sull’equo canone (392/1978) dove non veniva previsto fra gli eredi della titolarità del contratto di locazione, in caso di morte del titolare, il convivente more uxorio.

Conclusioni

L’unico modo per assicurare i diritti dei successori del convivente, e quindi permettere al convivente rimasto in vita d godere di beni mobili ed immobili come desiderato dal convivente defunto, è prevedere tutto questo in modo dettagliato nel testamento, tenendo sempre presente che la parte di eredità di cui il convivente può beneficiare è quella cosiddetta “disponibile”, ossia al netto delle quote che spettano di legge a parenti legittimi come coniugi o figli.

I documenti per il ricongiungimento familiare

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Documentazione necessaria per ottenere il ricongiungimento familiare

I documenti per il ricongiungimento familiare da presentare sono diversi e riguardano il reddito, l’alloggio e la documentazione attestante il legame familiare.

 I requisiti e la documentazione necessari per poter ottenere l’autorizzazione al ricongiungimento sono

1. Il reddito

– Reddito minimo annuo derivante da fonti lecite non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale aumentato della metà dell’importo dell’assegno sociale per ogni familiare da ricongiungere.

Al fine di dimostrare la disponibilità del reddito si tiene conto, non solo del reddito specifico del richiedente, ma anche di quello prodotto dai familiari conviventi (deve essere sempre opportunamente documentato).

I titolari dello status di rifugiato politico non dovranno dimostrare la sussistenza di questo requisito.

La valutazione sulle risorse economiche sufficienti non può portare ad una applicazione automatica del limite minimo stabilito in base all’importo annuo dell’assegno sociale ma dovrà invece tener conto della natura e solidità dei vincoli familiari, della durata dell’unione matrimoniale, della durata del soggiorno nello Stato membro, dei legami familiari, culturali o sociali con il Paese d’origine.

La documentazione attestante il reddito è fondamentale nel pacchetto di documenti per il ricongiungimento familiare.

Tali carte comprovanti il possesso dei requisiti devono essere consegnate al momento della convocazione.

2. L’assicurazione sanitaria per il genitore

Nel caso di richiesta di ricongiungimento di un genitore ultra sessantacinquenne è richiesta un’assicurazione sanitaria.

Al momento della presentazione dell’istanza sarà sufficiente redigere una dichiarazione di impegno a sottoscrivere una polizza assicurativa.

3. L’alloggio

La disponibilità di un alloggio che risponda ai requisiti di idoneità abitativa e conforme ai criteri igienico-sanitari. Tale certificazione è rilasciata dai competenti uffici comunali. La presenza di una abitazione regolare è una conditio sine qua non che deve essere presente nel fascicolo dei documenti per il ricongiungimento familiare.

La dimostrazione del legame familiare è fondamentale nei documenti per il ricongiungimento familiare e deve essere così articolata:

4. Certificazione attestante il rapporto familiare.

Questa può essere presentata direttamente in patria dal familiare con il quale ci si vuole ricongiungere. Tale certificazione va tradotta, legalizzata e validata dall’autorità consolare italiana del Paese di appartenenza e/o di provenienza dello straniero; Accertamenti mirati e precisi fino alla prova del Dna sono disposti nel caso di dubbi rispetto al reale rapporto di parentela.

Quando il richiedente sia titolare dello status di rifugiato, la sola mancanza di documentazione non può comportare il rigetto della domanda. Ai fini della certificazione del vincolo familiare potranno essere tenuti in considerazione elementi attendibili rilevati dalla rappresentanza consolare italiana.

5. Documentazione attestante il rapporto familiare

Certificato di stato famiglia in caso di ricongiungimento in favore del coniuge, al fine di dimostrare che non esiste altro coniuge sul territorio nazionale;

Certificato di matrimonio del genitore in caso di ricongiungimento con quest’ultimo, al fine di verificare l’eventuale presenza del congiunto sul territorio nazionale e l’assenza di un ulteriore vincolo matrimoniale dello stesso;

Separazione per il matrimonio contratto all’estero

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A quale normativa bisogna far riferimento in base alla cittadinanza dei coniugi

Il cittadino italiano che si trova all’estero può sposarsi, quindi contrarre matrimonio sia con un altro cittadino italiano che con un cittadino straniero.

Le condizioni per contrarre il matrimonio e la capacità matrimoniale sono regolate dalla legge nazionale di ciascun sposo: quindi quella italiana del codice civile, per il cittadino italiano e quella richiesta dalla legge nazionale per il cittadino straniero.

Cosa succede se una volta tornati in Italia i coniugi chiedono la separazione per il matrimonio contratto all’estero?

Può anche accadere che due cittadini stranieri si sposino nel loro paese di origine e poi si stabiliscano in Italia, chiedendo la separazione per il matrimonio contratto all’estero.

Matrimonio e separazione tra italiani

I cittadini italiani che si sposano all’estero non sono soggetti alle pubblicazioni di matrimonio, a meno che queste non siano richieste dalla legislazione del paese dove intendono sposarsi.

In alcuni casi l’Autorità estera richiede un “Certificato di capacità matrimoniale” ai sensi della Convenzione di Monaco del 5 settembre 1980, che è esente da legalizzazione e traduzione.

Il matrimonio che viene celebrato all’estero per avere valore in Italia deve essere sempre trascritto presso il Comune italiano competente; l’ufficio dello Stato civile estero emette l’atto di matrimonio in originale, che gli sposi devo rimettere alla Rappresentanza consolare, che a sua volta lo trasmetterà in Italia per la trascrizione nei registri dello stato civile del Comune competente.

E’ possibile anche presentare l’atto, legalizzato e tradotto, direttamente al Comune italiano di appartenenza.

Una volta trascritta, l’unione è valida e riconosciuta anche in Italia, ed è quindi possibile seguire l’iter previsto dalla giurisdizione italiana anche per la separazione per il matrimonio contratto all’estero.

Separazione coniuge italiano e straniero

Se due soggetti di diversa nazionalità intendono separarsi e divorziare, la normativa a cui fare riferimento è quella della Legge 218/1995, che prevede che la separazione e lo scioglimento del matrimonio siano regolati dalla legge nazionale comune dei coniugi al momento della domanda, quindi quello in cui la vita coniugale si è prevalentemente localizzata.

Separazione coniugi stranieri in Italia

La separazione per il matrimonio contratto all’estero di due stranieri residenti in Italia, è regolato dalla legge nazionale comune dei coniugi al momento della domanda, e qualora la separazione personale e lo scioglimento del matrimonio, non siano previsti dalla legge straniera applicabile, sono regolati dalla legge italiana.

La separazione e il divorzio, quindi, possono essere richiesti in Italia anche da parte di cittadini stranieri: la Corte di Cassazione ha infatti stabilito, con la sentenza 19994/2004, che anche se nessuno dei due coniugi è italiano e il matrimonio è stato contratto all’estero, il Giudice ha la competenza per decidere sulla separazione se uno dei due coniugi è però residente (anche solo di fatto) in Italia.

Calcolo dell’assegno di mantenimento: come si fa

occultare le condizioni economiche

Degli esempi pratici per capire la somma di denaro da versare al coniuge e ai figli

In caso di separazione tra i coniugi il Giudice può prendere un provvedimento economico, che si configura con l’assegno di mantenimento; questo può anche essere rimesso ad accordi presi liberamente dalla coppia.

L’assegno consiste semplicemente nel versamento di una somma di denaro in favore del coniuge economicamente debole, o degli eventuali figli.

Ma andiamo a vedere come si fa il calcolo dell’assegno di mantenimento, partendo però dall’illustrare quali sono i presupposti per ottenere questo contributo economico.

Dal matrimonio nascono diversi diritti e doveri per i coniugi, tra i quali troviamo l’obbligo di assistenza materiale al coniuge e ai figli; quello verso il coniuge non si estingue con la separazione, e neanche durante il periodo della causa, quando appunto si rende necessario con il versamento di un assegno, purché si verifichino determinate condizioni:

  • Il coniuge richiedente deve fare un’esplicita richiesta del mantenimento nella domanda di separazione;
  • Il coniuge può richiederlo se non gli è stata addebitata la separazione;
  • Il coniuge può richiederlo se non possiede “adeguati redditi propri”;
  • Il coniuge per essere obbligato al versamento deve disporre di mezzi economici idonei.

Il versamento avviene a cadenza mensile solitamente; per il calcolo dell’assegno di mantenimento è necessario prendere in considerazione il destinatario.

Assegno di mantenimento al coniuge

Se uno dei due coniugi dopi la separazione non dispone di mezzi economici adeguati per conservare il precedente tenore di vita, il giudice può obbligare l’altro (solitamente in marito), a corrisponderle un assegno, ma deve tenere conto del suo reddito.

In determinati casi è anche possibile che venga riconosciuto solo il diritto agli alimenti, il versamento di una somma limitata al sostentamento.

Facciamo un esempio per il calcolo dell’assegno di mantenimento:

Una situazione reddituale media: (operaio/impiegato, € 1.200,00 / € 1.600,00 mensili per 13 o 14 mensilità):

– con assegnazione della casa coniugale: assegno pari a circa 1/4 del reddito del coniuge obbligato (da € 300,00 a € 400,00 circa);

– senza assegnazione della casa coniugale: assegno pari a circa 1/3 del reddito del coniuge obbligato (da € 400,00 a € 535,00 circa).

Assegno di mantenimento ai figli

Ogni genitore è obbligato per legge al mantenimento dei figli, quindi deve provvedere a versare del denaro periodicamente.

In questo caso per il calcolo dell’assegno di mantenimento il Giudice deve tenere in considerazione tanti fattori diversi:

  • Esigenze attuali del figlio;
  • Tenore di vita del minore tenuto durante la convivenza con entrambi i genitori;
  • Permanenza presso ciascun genitore;
  • Situazione reddituale dei genitori;
  • Valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti di ciascun genitore.

Facciamo un esempio pratico per il calcolo dell’assegno di mantenimento verso uno o più figli:

Una situazione reddituale media (operaio/impiegato; € 1.200,00 / 1.600,00 mensili per 13 o 14 mensilità):

– un figlio: assegno pari al 25% circa del reddito (€ 300,00 / € 400,00);

– due figli: assegno pari a circa il 40% del reddito (€ 480,00 / € 640,00);

– tre figli: assegno pari al 50% circa del reddito (€ 600,00 / € 800,00).

Permesso di soggiorno: quando l’immigrato sposato in Italia e non più convivente ne ha diritto

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La Corte di Cassazione ha ribaltato le due sentenze precedenti che avevano rifiutato il rinnovo del permesso di soggiorno

La Corte di Cassazione si è spesso occupata in questi ultimi anni di questioni che riguardano la concessione del permesso di soggiorno agli immigrati, in particolare di quello che si rilascia per questioni familiari.

Il Governo italiano prevede, infatti, di concederlo secondo gli articoli 29 e 30 del Decreto Legislativo n. 286/98 e successive modifiche, ai membri della stessa famiglia, che possono richiedere il permesso di soggiorno secondo alcune condizioni, e dopo aver dimostrato di essere in possesso di tutti i documenti necessari.

Uno dei motivi per i quali si concede il permesso di rimanere nel nostro paese, è relativo alla coesione familiare, quindi al matrimonio, con un cittadino italiano, un membro dello Stato della Comunità Europea, oppure con uno straniero in possesso della carta di soggiorno per stranieri.

A tal proposito, la Corte di Cassazione ha emesso un’interessante sentenza, dopo aver esaminato una questione riguardante il permesso di soggiorno negato ad una cittadina australiana, sposata con un italiano, ma non più convivente con quest’ultimo, perché deceduto.

Alla cittadina straniera era stato infatti negato dal Tribunale di Verona, il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari, concesso nel 2006 a seguito del matrimonio con l’uomo italiano.

Il Tribunale ha però poi rifiutato il ricorso della donna, e inoltre, la Corte d’Appello di Venezia, ha confermato anche la sentenza di primo grado sul rilievo, perché mancava il requisito della convivenza tra i coniugi, ritenuto quindi di fondamentale importanza per concedere il rinnovo del per permesso di soggiorno, relativo a questioni familiari.

La donna australiana, trovandosi costretta, dopo il rifiuto, si è rivolta alla Corte di Cassazione, che ha ribaltato le sentenze precedenti dei Tribunali cittadini.

La sentenza si è rivelata, infatti, a favore della cittadina straniera, e per diversi motivi: il primo riguarda la mancata applicazione del decreto legislativo n.30 del 2007, che consente di ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno al coniuge di un cittadino dell’Unione Europea, sulla base della durata del matrimonio, che deve essere superiore ai 3 anni; il secondo riguarda invece la scorrettezza riscontrata nei confronti della donna, per non aver almeno convertito il permesso concesso in precedenza per  motivi familiari, in permesso concesso per lavoro subordinato, considerando che la donna lavorava regolarmente nel nostro paese come badante.

Oltre a queste motivazioni valide, la Corte di Cassazione ha stabilito che lo stato di vedova non può essere paragonato a quello di donna divorziata: di conseguenza il requisito della convivenza, in caso di morte del coniuge, non doveva essere richiesto ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno.

Assegno divorzile: linee guida per determinarlo

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I presupposti per il versamento dell’assegno divorzile e circostanze particolari

La Cassazione, con un’ordinanza del 27 maggio 2014, ha affrontato un argomento molto importante, quanto delicato, come quello dell’assegno divorzile; in particolare la Suprema Corte di Cassazione ha determinato le linee guida da seguire per la sua assegnazione.

I Giudici, analizzando i motivi di un ricorso, hanno infatti stabilito che per l’accertamento del diritto a ricevere un assegno divorzile, ci si debba basare su dei requisiti molto più rigidi, rispetto a quelli sui quali si basa l’assegnazione dell’assegno di mantenimento (in caso di separazione dei coniugi).

Deve essere, infatti, verificata l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge che lo richiede, raffrontandoli con quelli a sua disposizione durante la vita matrimoniale, e quindi il suo tenore di vita precedente, che sarebbe proseguito in circostanza di matrimonio.

Ma come si desume il tenore di vita precedente?

Sulla base dell’ammontare complessivo dei redditi e delle disponibilità dei coniugi; per determinare l’entità dell’assegno divorzile si calcolano i beni acquisiti per successione ereditaria dopo la separazione, che sono presi in considerazione ai fini della valutazione della capacità economica del coniuge che dovrebbe versare l’assegno; quindi riassumendo, per determinare la cifra dell’assegno, il Tribunale deve tener conto di determinati fattori:

  • Divario economico tra i coniugi;
  • Tenore di vita durante il matrimonio;
  • Attitudine del coniuge beneficiario a svolgere un lavoro, e tutti gli altri fattori rilevanti.

Quindi, il coniuge che lo richiede, per ottenerlo deve dimostrare di non disporre di mezzi propri adeguati e di non poter procurarseli per ragioni obiettive (ad esempio per inabilità fisiche che gli impediscono di svolgere un lavoro).

L’assegno di divorzio, a differenza di quello di mantenimento (corrisposto durante la separazione), si basa sullo scioglimento definitivo del matrimonio, e la sua finalità è assistenziale, è cioè volto a supportare l’ex coniuge, considerato debole economicamente.

L’assegno divorzile può essere versato mensilmente o, in casi eccezionali, liquidato in un’unica soluzione, con un accertamento del Tribunale verso la somma stabilita.

Quando il coniuge che lo riscuote si risposa perde il diritto a riceverlo, mentre nel caso in cui intraprenda una convivenza no, a meno che non si dimostri un effettivo, significativo e stabile miglioramento delle condizione di vita.

Una recente sentenza, di aprile 2015, ha infatti sancito che viene meno il presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile, nel caso in cui l’ex coniuge instauri una nuova famiglia di fatto; la Suprema Corte ha infatti accolto l’appello del coniuge divorziato obbligato, rigettando la domanda di assegno divorzile, che era stato stabilito essere di mille euro al mese, con decorrenza dal mese successivo a quello della sentenza.

Questa sentenza, che ha avuto grande rilievo a livello nazionale, ha segnato un importante passo avanti nel riconoscimento delle famiglie di fatto.

Disconoscimento del figlio nato da una relazione extraconiugale

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La Corte di Cassazione di Salerno ha confermato questa possibilità di disconoscimento del figlio

Una sentenza che risale ad aprile 2014, della Suprema Corte di Cassazione di Salerno, ha confermato che è possibile il disconoscimento del figlio.

In questo specifico caso si trattava di un figlio nato da una relazione extraconiugale, che il “presunto” padre, separato, ha scoperto solo in seguito essere stata intrapresa da quella che una volta era la moglie.

Sorto il dubbio della paternità, l’uomo si è rivolto al Tribunale per il disconoscimento del figlio, dopo aver anche effettuato degli esami ematologici, che hanno confermato i sospetti riguardo l’adulterio della moglie e del conseguente concepimento extraconiugale.

La legge italiana prevede, infatti, la possibilità di richiedere il disconoscimento di paternità (che nel caso di figli nati all’interno del matrimonio è “presunta”), ma solo in alcuni casi:

  • Mancata convivenza dei coniugi nel periodo compreso tra il 300simo ed il 180simo giorno prima del parto;
  • Se in questo periodo di tempo l’uomo era affetto da impotenza, o incapace di concepire (ad esempio una malattia poi curata);
  • Se la moglie ha avuto una relazione extraconiugale;

In questo caso concreto ci troviamo di fronte all’ultima ipotesi: inizialmente, nel 2006, la domanda dell’uomo è stata però rigettata dal Tribunale, a causa dell’opposizione della madre nell’effettuare i prelievi necessari all’indagine genetica-ematologica, per sé e per il minore.

Sentenza confermata anche in sede d’appello.

L’uomo ha così deciso di procedere con il ricorso presso la Corte di Cassazione, accolto con la sentenza n. 4175 del 2007: è stato rilevato che la Corte Costituzionale aveva dichiarato illegittimo l’art. 235 c.c., comma 1, n. 3, nella parte in cui, ai fini dell’azione di disconoscimento della paternità, viene subordinato l’esame delle prove tecniche, da cui risulta che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre, alla dimostrazione dell’adulterio della moglie.

Nel maggio del 2010 la corte d’appello di Salerno ha così accolto la domanda di disconoscimento del figlio, ordinando all’Ufficiale dello Stato civile di attribuirgli il cognome della madre.

La questione è tornata di fronte alla Corte di Cassazione, ma questa volta la madre si è lamentata del fatto che, prima della sentenza del 2006, nessuna indagine ematologica era possibile (art. 95 DPR n. 396/2000), e quindi la domanda di disconoscimento non avrebbe potuto superare la fase preliminare dell’accertamento dell’adulterio; la donna ha anche contestato la violazione dell’art. 394 C.P.C. nonché il vizio di motivazione, affermando che solo dopo la sentenza della Corte costituzionale e delle modifiche apportate dal Legislatore, era consentito proporre la domanda di mantenimento del cognome.

La cassazione ha dichiarato i motivi di ricorso infondati.

E’ stato così possibile il disconoscimento del figlio da parte dell’uomo che ne aveva fatto richiesta.

Adottare il figlio del convivente: si può?

adottare il figlio del convivente

Adottare il figlio del convivente non è consentito dalla legge, ma una sentenza della Corte di Firenze dice il contrario

L’adozione è l’atto attraverso il quale una coppia accoglie un minorenne (in alcuni casi anche un maggiorenne) per donargli una famiglia, nel caso in cui a questo manchi il sostegno di quella d’origine. La questione qui, è capire se è possibile adottare il figlio del convivente.

In generale, i requisiti per poter fare la domanda di adozione nel nostro paese sono molto rigidi, infatti i presupposti sono i seguenti:

  • Il minore deve essere dichiarato in stato di abbandono, ovvero privo di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti entro il quarto grado;
  • Il tribunale per i minorenni deve emettere la dichiarazione di adottabilità, che attesta che il minore si trova in stato di abbandono;

Gli adottanti devono rispondere a dei requisiti:

  • Devono essere uniti in matrimonio da almeno tre anni o tra convivenza e matrimonio devono raggiungere questo traguardo; tra loro non deve aver avuto luogo negli ultimi tre anni la separazione personale, neppure di fatto;
  • La loro età deve superare di almeno 18 e di non più di 45 anni l’età dell’adottato (in taluni casi è consentita una deroga);
  • Devono essere giudicati idonei e capaci di educare, istruire e mantenere i minori che intendono adottare.

Adottare il figlio del convivente è possibile?

Abbiamo visto che la legge concede la possibilità di adottare solo alle coppie unite in matrimonio; ma è possibile adottare il figlio del convivente, quindi senza essere sposato con l’altro genitore?

L’articolo 44 della legge 144 del 1983 prevede la possibilità, per il coniuge, di adottare il figlio del coniuge, senza esprimersi sulla convivenza.

Per questo possiamo solo far riferimento ad una pronuncia della Corte d’Appello di Firenze (sezione minorenni) del 2013, che ha esteso questa possibilità, permettendo di adottare il figlio del convivente.

Più volte i Giudici hanno respinto richieste di adozioni da parte di soggetti adatti in tutto, ma non uniti in matrimonio, un vincolo che oggi sembra essere sempre più un’utopia, considerando la percentuale sempre in crescita di separazioni e divorzi.

La pronuncia della Corte d’Appello di Firenze si basa, infatti, sul presupposto che l’interesse del minore può essere tranquillamente garantito a prescindere dall’esistenza o meno di un vincolo giuridico tra i genitori, estendendo così la possibilità ad adottare il figlio del convivente.

È, infatti, fondamentale tutelare è l’interesse e l’inserimento del minore in un contesto idoneo al suo sviluppo, e questo non può essere certamente collegato ad una scelta personale e relativa alla sfera personale di due soggetti, di unirsi o meno in matrimonio.

Secondo la Corte d’Appello di Firenze non è giusto pregiudicare i diritti inviolabili garantiti al minore dalla Carta Costituzionale: questo il principio sul quale si è basata la sentenza, innovativa e rivoluzionaria.

Inadempimento delle condizioni di divorzio

inadempimento delle condizioni di divorzio

Le conseguenze civili e penali in caso di inadempimento delle condizioni stabilite in sede di divorzio

I casi di inadempimento delle condizioni di divorzio sono numerosissimi; le norme al riguardo hanno lo scopo principale di tutelare gli aventi diritto e di garantire che venga loro versato il mantenimento.

L’ordinamento giuridico offre diversi strumenti coercitivi agli aventi diritto in caso di inadempimento delle condizioni di divorzio e quindi del coniuge che si sottrae agli obblighi di mantenimento della prole e dell’altro coniuge fissati dalla sentenza di separazione o di divorzio.

L’art. 337-ter del Codice Civile ribadisce il dovere sancito anche dalla Costituzione di mantenimento, cura, educazione, istruzione e assistenza dei genitori nei confronti della prole.

L’articolo 156 del Codice Civile invece prevede che: “il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri”.

L’inadempimento delle condizioni di divorzio e quindi dell’obbligo del mantenimento ha conseguenze sia sul lato penale che su quello civile.

Conseguenze civili dell’inadempimento delle condizioni di divorzio

Per la Legge anche l’inadempienza isolata nel pagamento dell’importo dovuto per il mantenimento è sufficiente perché gli aventi diritto si appellino all’articolo 156 del Codice Civile e richiedano la somma loro dovuta.

Anche quando non costituisce reato infatti il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento è un illecito civile e offre al coniuge più debole una serie di tutele tra cui:

  • la possibilità per gli aventi diritto di fare istanza al giudice perché emetta un ordine di pagamento diretto e quindi ordini a soggetti terzi che sono tenuti a corrispondere periodicamente somme di denaro all’obbligato, che una parte di queste ultime venga indirizzata agli aventi diritto;
  • la possibilità per gli aventi diritto di procedere al sequestro di parte dei beni dell’obbligato, come previsto dall’articolo 156 del Codice Civile e dalla legge sul divorzio (n. 898/1970);
  • la richiesta di ritiro del passaporto al coniuge obbligato al mantenimento perché egli non si sottragga ai suoi obblighi rendendosi irreperibile.

Conseguenze penali dell’inadempimento delle condizioni di divorzio

L’ inadempimento delle condizioni di divorzio costituisce anche un reato penale, perché ricade tra i reati puniti dall’articolo 570 del Codice Penale, modificato poi dal D. Lgs. n. 154/2013, che sanziona chiunque si sottragga agli obblighi di assistenza derivanti dalla responsabilità genitoriale o dal ruolo di coniuge con la pena della reclusione fino a un anno o di una multa pecuniaria da euro 103 fino a 1.032 euro.

In questo caso non basta l’inadempienza isolata ma piuttosto deve esserci un’omissione tale da privare materialmente il coniuge o i figli dei mezzi di sussistenza, determinando loro una condizione di disagio.

La revisione dell’assegno

Nel caso in cui il coniuge obbligato al mantenimento registri uno stato di impossibilità o grave difficoltà nel far fronte al versamento dell’assegno, egli può richiedere la modifica e la revisione dell’importo dell’assegno stesso.

L’articolo 156 del Codice Civile in caso di sopraggiunti giustificati motivi permette al Giudice di disporre la revoca o la modifica dei provvedimenti adottati in ordine all’assegno di mantenimento in sede di divorzio.

Convivenza more uxorio: diritti e doveri del convivente more uxorio

convivenza more uxorio

Nella famiglia di fatto diritti e doveri sono diversi rispetto a quella tradizionale

La convivenza more uxorio, chiamata anche famiglia di fatto, indica due persone che decidono di condividere stabilmente la vita per motivi affettivi, ma senza essere legati dal vincolo matrimoniale.

L’assenza del patto matrimoniale segna, di fatto, la profonda differenza fra i diritti e i doveri dei coniugi e quelli dei conviventi more uxorio. Il fatto che non esista contratto di matrimonio svincola i conviventi da obblighi reciproci di natura personale (come la fedeltà reciproca) e patrimoniale (collaborazione materiale), ma di conseguenza anche dai diritti come la successione o gli alimenti.

Diritti e doveri nella convivenza more uxorio

Come detto, la convivenza more uxorio non viene riconosciuta come famiglia tradizionale dalla legge e non esiste una specifica giurisprudenza a riguardo.  Essenzialmente i diritti e i doveri fra conviventi sono quindi legati esclusivamente alla loro volontà e non a obblighi giuridici.

Per quanto riguarda gli acquisti effettuati durante la convivenza, ad esempio, entrano nel patrimonio di colui che li ha effettuati, ma i due patrimoni dei conviventi restano separati. Così, nel momento in cui la convivenza more uxorio dovesse interrompersi, nessuna legge impone all’ex convivente di provvedere all’altro, anche se questo resta sprovvisto di mezzi economici.
Infine, in mancanza di clausole testamentarie in favore del convivente, questo non può vantare alcun diritto sul patrimonio ereditario dell’altro convivente. Inoltre, anche quando previsto dal testamento, deve comunque fare i conti con i legittimi eredi (eventuali coniugi e figli) e con i loro diritti di successione.

Convivenza more uxorio e obbligazioni naturali

Se di diritti e doveri quindi si può parlare, nella convivenza more uxorio, questi derivano dall’inquadramento costituzionale che viene dato alla famiglia di fatto, con riferimento all’art.2 quando si parla di “doveri di solidarietà ed assistenza reciproca, caratterizzati da una dimensione morale, soprattutto nella loro fase dinamica, non ripetibili e non coercibile secondo la disciplina delle obbligazioni naturali”.

Eventuali somme che vengono prestate per l’assistenza materiale fra conviventi (ad es. le spese per la vita quotidiana in coppia), costituiscono un adempimento del tutto spontaneo non di obblighi, ma di doveri riconducibili solo all’etica e alla morale.

Queste prestazioni economiche, più precisamente, costituiscono l’adempimento di “obbligazioni naturali”, obbligazioni il cui unico effetto è la “soluti retentio”, ossia l’impossibilità di riavere indietro quanto si è pagato spontaneamente.

Contratti di convivenza

Per disciplinare la convivenza more uxorio è comunque possibile stilare dei contratti di convivenza rivolgendosi ad un notaio.

Tramite questi contratti è possibile regolamentare:

  • La partecipazione dei partner alle spese comuni
  • In caso di fine della convivenza, l’assegnazione dei beni acquistati quando la relazione era in essere
  • Quale uso debba essere fatto della casa residenziale comune
  • I rapporti patrimoniali reciproci in caso di interruzione della convivenza
  • Designazione di uno dei partner come amministratore di sostegno, in caso di impossibilità dell’altro partner malattia fisica o psichica
  • Decisioni sul mantenimento, l’educazione e l’istruzione dei figli naturali (fermo restando che la tutela e la cura dei figli è obbligatoria per entrambi i genitori e che qualsiasi clausola o accordo possono essere cambiati o revocati in base al loro interesse primario)

Una volta redatto e sottoscritto, il contratto di convivenza sancisce obblighi giuridici come qualunque altro contratto e laddove i termini non venissero rispettati il partner che si ritiene parte lesa è autorizzato a rivolgersi al giudice.