Se la madre ha disturbi della personalità il figlio minore è adottabile

figlio minore adottabile

Se i genitori non sono in grado di prendersi cura dei figli viene dichiarata l’adottabilità

La madre soffre di un grave disturbo della personalità e il padre è sottoposto a custodia cautelare: il figlio minore è adottabile secondo la sentenza della Corte di Cassazione.

Ancora una volta la Corte di è occupata di questi casi che prevedono la tutela degli interessi del minore, se questo si trova in una situazione familiare, che può essere definita pericolosa per la sua incolumità, mentale e fisica.

In questo caso specifico, già la sentenza del 2012, nella prima sezione civile della Suprema Corte di Cassazione, aveva dichiarato legittima l’adozione, a causa delle gravi patologie delle quali soffre la mamma del bambino, e della situazione giudiziaria del padre, sottoposto a custodia cautelare; era stato così nominato un tutore provvisorio e un curatore speciale, disponendo immediatamente la sospensione di ogni contatto tra il minore e i genitori.

Il figlio minore è adottabile, quindi, secondo una prima analisi della situazione, ragion per la quale la madre decide di presentare un ricorso, che però viene respinto dalla Corte, che ribadisce i concetti della prima sentenza; nelle prime valutazioni, infatti, della Corte territoriale, già si evidenziavano gravi problemi psichici della madre: nonostante fosse chiaro il suo amore profondo per i figli, era infatti affetta da un grave disturbo della personalità, come emerso dalle relazioni dei consulenti e dei servizi sociali; in particolare, la donna soffre di un “funzionamento psicologico paranoide, caratterizzato da affetti, impulsi ed idee intollerabili che vengono disconosciuti e attribuiti ad altre persone”.

A causa della malattia ha spunti persecutori, che non le permettono di possedere un minimo di consapevolezza sulle sue criticità e difficoltà personali, tanto che li vive egli stessa come frutto di elementi persecutori, con una conseguente inadeguatezza, alla quale reagisce con dei comportamenti aggressivi, poi rimossi dalla memoria.

Una condizione, questa, logicamente considerata come determinante per la valutazione circa la custodia del bambino; infatti, la grave trascuratezza e la sofferenza psichica avevano determinato nel minore sintomi di stress post traumatico, che rimandavano a episodi di paura, ma anche verosimilmente a episodi di maltrattamenti veri e propri.

Il figlio minore è adottabile quindi per tutte queste ragioni esposte nella sentenza della Corte di Cassazione, del marzo 2014.

Il minore ha diritto a vivere nella propria famiglia biologica, ma il Tribunale, in casi particolari come questo, può dichiarare che il figlio minore è adottabile, se vivere con i propri genitori risulta provocare un “serio pregiudizio” per la sua crescita e la sua salute mentale e psichica.

Devono quindi essere accertate delle situazioni gravi e dannose (come i maltrattamenti, la trascuratezza, l’estrema povertà), che possano compromettere lo sviluppo del bambino.

Se un genitore, malato fisico o psichico, da solo non è in grado di assicurare istruzione, educazione, e cure adeguate al figlio (e non è supportato da nessuno), il Tribunale può dichiarare lo stato di abbandono, e quindi l’adottabilità.

Legge sul ricongiungimento familiare: come funziona

Legge sul ricongiungimento familiare

Come far entrare legalmente in Italia parenti di cittadini stranieri già residenti in maniera regolare. Norme e procedure.

La legge sul ricongiungimento familiare consente l’ingresso in Italia ai familiari di cittadini stranieri regolarmente soggiornanti in Italia.

L’Ambasciata Italiana del paese di origine concede al cittadino straniero il visto di ingresso per motivi di famiglia una volta che l’ufficio per l’Immigrazione della Prefettura competente ha concesso il via libera.

Con quali tipi di permesso è possibile usufruire della legge sul ricongiungimento familiare?

E’ possibile fare richiesta di ricongiungimento familiare per i titolari di:

– permesso di soggiorno per lavoro subordinato o per lavoro autonomo, di durata non inferiore a un anno

– permesso per asilo politico,

– permesso per protezione sussidiaria,

– permesso per motivi di studio, per motivi religiosi.

– permesso per motivi familiari,

– permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo

– permesso perchè si è in attesa di cittadinanza

La procedura

La strada da seguire per il ricongiungimento familiare si articola in due fasi: la verifica dei requisiti oggettivi per il rilascio del nullaosta (titolo di soggiorno, reddito, alloggio) e la verifica dei requisiti soggettivi (legami di parentela).

In via generale per usufruire della legge sul ricongiungimento familiare è necessario avere:

  • Copia del permesso di soggiorno la cui durata deve essere di almeno un anno.
  • Passaporto del richiedente;
  • Copia del passaporto dei familiari da ricongiungere

I requisiti sono invece:

– Reddito minimo annuo derivante da fonti lecite non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale aumentato della metà dell’importo dell’assegno sociale per ogni familiare da ricongiungere.

– la certificazione attestante il rapporto familiare che può essere presentata direttamente in patria dal familiare con il quale ci si vuole ricongiungere. Tale certificazione va tradotta, legalizzata e validata dall’autorità consolare italiana del Paese di appartenenza e/o di provenienza dello straniero.

– Certificato di stato famiglia in caso di ricongiungimento in favore del coniuge;

  • Certificato di matrimonio del genitore in caso di ricongiungimento con quest’ultimo;

Una volta inoltrata la domanda tramite il web decorrono i termini di 180 giorni previsti dalla normativa per la definizione della pratica ed il rilascio del nulla osta.

L’ufficio, acquisito dalla questura il parere sull’insussistenza di motivi ostativi all’ingresso del familiare per cui si chiede il ricongiungimento nel territorio nazionale e verificata l’esistenza dei requisiti, rilascia il nulla osta, oppure emette un provvedimento di diniego dello stesso. Contro il diniego del nulla-osta è possibile fare ricorso presso il Tribunale Ordinario del luogo di residenza.

Il rilascio del visto

Il cittadino straniero deve presentare i documenti che provano il rapporto di parentela presso il Consolato italiano del proprio paese di residenza. Se la verifica ha esito positivo il Consolato o l’Ambasciata rilasciano entro 30 giorni il visto per ricongiungimento.

Il Permesso di soggiorno per motivi di famiglia

Il permesso di soggiorno per motivi di famiglia viene rilasciato per una durata pari a quella del permesso del familiare che ha richiesto il ricongiungimento.

Tale permesso consente l’accesso ai servizi assistenziali, l’iscrizione a corsi di studio o di formazione professionale, di svolgere attività lavorativa subordinata o autonoma e qualora l’interessato lo richieda può essere convertito in permesso per motivi di lavoro.

La tutela dell’unità familiare

Alcune modifiche recentemente introdotte nella legge sul ricongiungimento familiare del nostro paese prevedono la salvaguardia dell’unità della famiglia.

Così recita il codice: «Nell’adottare il provvedimento di rifiuto del rilascio, di revoca o di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero del familiare ricongiunto, si tiene anche conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato e dell’esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese d’origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, anche della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio nazionale.»

Affido condiviso anche in presenza di un’alta conflittualità tra gli ex coniugi

affido condiviso

Sull’affido condiviso la Corte di Cassazione tutela l’interesse della figlia nel mantenere un rapporto stabile con i genitori

Con una sentenza del marzo 2014 la Corte di Cassazione si è espressa su un caso molto interessante riguardo l’affido condiviso dei figli, anche nell’eventualità di un’alta conflittualità tra gli ex coniugi.

L’affidamento congiunto è stato, infatti concesso, anche se i genitori si trovavano in una situazione nella quale non era affatto presente l’armonia necessaria a trovare degli accordi per quanto riguarda la gestione della prole.

L’affido condiviso è stato disposto dopo che il Tribunale di Firenze ha pronunciato la sentenza di separazione personale dei coniugi, ed aveva anche respinto le domande di addebito reciproche, disponendo le regole per gli incontri tra la figlia e il padre, visto che il domicilio di questa era stato disposto presso la madre; gli incontri dovevano, inizialmente, avvenire tramite l’intervento di un operatore del servizio sociale.

Dopo la prima sentenza, entrambi gli ex coniugi, hanno proposto un appello per richiedere l’affido esclusivo della figlia.

La Corte di Appello di Firenze ha risposto confermando invece l’affido condiviso, aumentando il contributo che il padre è tenuto a versare mensilmente, e con una diversa regolamentazione delle visite, lasciando tutto il resto invariato rispetto alla sentenza di primo grado.

La decisione riguardo l’affido è stata presa considerando che deve essere sempre adottato il provvedimento con riferimento l’interesse esclusivo della prole, quindi, anche se presente un’aspra conflittualità tra i genitori, ciò che conta è che il loro comportamento non vada a porre in serio pericolo il minore, cioè a compromettere il suo equilibrio psico-fisico, in maniera da pregiudicare il suo interesse.

Il nostro ordinamento, infatti, dopo la riforma in merito del 2006, dispone che l’affido condiviso sia la forma da prediligere, per garantire ai figli il diritto alla bi-genitorialità; in questo modo è possibile infatti mantenere i rapporti stabili ed equilibrati con entrambi i genitori, che partecipano alle decisioni di maggiore interesse che li riguardano.

Il Giudice predispone presso quale genitore devono vivere i figli abitualmente, il quale esercita la responsabilità genitoriale a delle condizioni determinate in sede di separazione.

In caso si verifichi un disaccordo tra gli ex coniugi sarà il Giudice ad intervenire; entrambi hanno infatti la possibilità di ricorrere al Tribunale qualora lo ritengano necessario, ad esempio se si ritiene siano state prese delle decisioni pregiudizievoli all’interesse della prole.

Nell’affido condiviso non si parla di “diritto di visita”, come invece accade in quello esclusivo, anche se il Giudice determina modi e tempi per la permanenza dei figli presso ciascun genitore; ad esempio week end lunghi, settimane intere alterne, e se i genitori sono disponibili, anche incontri inframmezzati con l’uno e l’altro.

 

La separazione tra coniugi sposati all’estero quando il matrimonio non è stato trascritto

separazione all'estero

Cosa succede se una coppia di coniugi intende separarsi ma non ha trascritto il matrimonio

Il cittadino italiano che si trova all’estero può sposarsi sia con un altro cittadino italiano o con uno straniero; il matrimonio può avvenire dinanzi:

  • A un’autorità straniera locale: se nello stato straniero vengono rispettate le forme previste e sussistono le condizioni e la capacità necessarie per contrarre matrimonio secondo le norme del codice civile, il matrimonio è valido e produce effetti immediati anche nell’ordinamento italiano; in questo caso non sussiste l’obbligo delle pubblicazioni, a meno che non sia richiesto dalla legislazione straniera;
  • All’autorità diplomatica o consolare: il Console è autorizzato a celebrare i matrimoni dalla legge italiana; possono sposarsi due cittadini italiani o un cittadino italiano e uno straniero, che devono presentare l’istanza di celebrazione del matrimonio consolare, che può essere presentata di persona all’ufficio consolare (inviata per posta, fax o email) e corredata dalla copia dei documenti di identità dei richiedenti; una volta accolta l’istanza, la coppia deve richiedere le pubblicazioni.
  • A un ministro di un culto religioso: il matrimonio religioso all’estero è valido ed efficace in Italia solo se produce effetti civili per l’ordinamento dello Stato straniero in cui si è celebrato e dovrà essere trascritto, con valore dichiarativo e non costitutivo (ovvero non è necessaria la trascrizione perché il matrimonio sia considerato valido), nei registri dello stato civile italiani.

In questo articolo ci occuperemo in particolare del matrimonio contratto all’estero non trascritto.

La trascrizione

Il matrimonio celebrato all’estero per avere valore in Italia deve essere trascritto presso il Comune italiano competente; l’ufficio dello Stato civile estero provvede ad emettere l’atto di matrimonio in originale, che gli sposi devo rimettere alla Rappresentanza consolare, che a sua volta lo trasmetterà in Italia per la trascrizione nei registri dello stato civile del Comune competente.

E’ possibile anche presentare l’atto, legalizzato e tradotto, direttamente al Comune italiano di appartenenza.

E’ importante precisare però che il matrimonio contratto all’estero non trascritto non pregiudica la sua validità: la trascrizione non ha natura costitutiva, ma semplicemente dichiarativa e di pubblicità.

I matrimoni celebrati all’estero hanno immediata validità nel nostro ordinamento se celebrati secondo le forme previste dalla legge straniera, e la loro trascrizione in Italia ha un valore meramente certificativo.

La separazione

Ma è possibile chiedere la separazione per il matrimonio contratto all’estero non trascritto?

L’iter da seguire in questo caso prevede prima la trascrizione, perché il matrimonio contratto all’estero non trascritto deve essere dichiarato prima di procedere con la separazione e l’eventuale divorzio.

Se i due soggetti sono di diversa nazionalità, la normativa a cui fare riferimento è quella della Legge 218/1995, che prevede che la separazione e lo scioglimento del matrimonio siano regolati dalla legge nazionale comune dei coniugi al momento della domanda, quindi quella in cui la vita coniugale si è prevalentemente localizzata; stessa cosa per due coniugi stranieri, purché almeno uno dei due sia, anche solo di fatto, residente in Italia.

Adottare un minore abbandonato: la legislazione in merito

adottare un minore abbandonato

La Legislazione permette di adottare un minore abbandonato

La Suprema Corte di Cassazione ha esaminato un interessante caso relativo alla possibilità di adottare un minore abbandonato, cioè nel caso in cui i genitori fanno mancare allo stesso l’assistenza morale e materiale, lasciando così il minore in una situazione di totale abbandono.

Sono dichiarati anche d’ufficio in stato di adottabilita’ dal tribunale per i minorenni del distretto nel quale si trovano, i minori in situazione di abbandono perche’ privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purche’ la mancanza di assistenza non sia dovuta a forza maggiore di carattere transitorio.

La situazione che permette di adottare un minore abbandonato sussiste, sempre che ricorrano le condizioni di abbandono prima descritte, anche quando i minori siano ricoverati presso istituti di assistenza o si trovino in affidamento familiare.

Non sussiste causa di forza maggiore quando i soggetti rifiutano le misure di sostegno offerte dai servizi locali e tale rifiuto viene ritenuto ingiustificato dal giudice.

La Corte ha ribadito che “il diritto del minore a vivere nel proprio ambiente di origine sussiste fino a che non si verifichi una situazione di abbandono cioè mancanza di assistenza morale e materiale”.

Ciò è scritto nella sentenza relativa a un caso specifico “con motivazione adeguata e non illogica il giudice evidenzia gli abusi sessuali del padre e del fratello sulla minore e l’atteggiamento ambivalente della madre che ha presentato denuncia, ma successivamente ha cercato di minimizzare e ridimensionare il fatto“.

Anche per i giudici di Piazza Cavour, come per quelli territoriali, “il danno subito è enorme“ poichè la minore “presenta un disturbo della condotta depressivo e post-traumatico di grado medio – grave da stress, nonché una sofferenza profonda“.

Inoltre, “non è in grado di reggere incontri con la madre per l’immensa sofferenza e delusione, circa l’incapacità della madre stessa di scegliere da che parte stare”.

Questa situazione permette di adottare il minore abbandonato.

I Giudici di Piazza Cavour infine precisano che “la valutazione della Consulenza spetta al giudice del merito e non è suscettibile di controllo in questa sede, se, come nella specie, è accompagnata da motivazione adeguata e non illogica e scevra da errori di diritto” pertanto, rigettando il ricorso affermano la correttezza della la sentenza impugnata dove si “ravvisa una situazione di abbandono (mancanza di assistenza materiale e morale), una prognosi di irreversibilità e una grave incidenza di tale situazione sullo sviluppo della personalità della minore“. Il sommarsi di queste situazioni fa scattare la possibilità di adottare il minore abbandonato.

Mantenimento dei figli in caso di separazione: l’assegno

mantenimento dei figli in caso di separazione

Con quale modalità i genitori devono provvedere alla cura dei figli dopo la rottura sentimentale

Il dovere dei genitori a contribuire al mantenimento dei figli minorenni anche in situazioni di crisi familiare è stato sancito dalla riforma normativa del 2006, con la legge n.54 ”Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli”, all’art. 155 del Codice civile.

Quello che viene tutelato, in tutti i casi, è l’interesse della prole, che non deve essere in nessun modo danneggiato anche quando si verifica la rottura della relazione sentimentale dei genitori; i figli hanno diritto alla bi-genitorialità, quindi a mantenere un rapporto stabile con entrambi i genitori, anche dopo la separazione, il divorzio o la cessazione della convivenza di quest’ultimi; la legge prevede, infatti, che sia sempre privilegiato l’affidamento condiviso, nel quale il minore vive in modo stabile da un genitore, mantenendo però forti i contatti con l’altro, che interviene su tutte le decisioni che lo riguardano.

Tutto questo va, ovviamente, ad investire anche la questione del mantenimento dei figli in caso di separazione: l’art. 155 c.c. sancisce le regole che riguardano tanto la regolamentazione delle modalità di contribuzione (mantenimento diretto/indiretto), quanto l’entità della contribuzione (criteri di quantificazione dell’assegno del mantenimento).

La differenza tra il mantenimento dei figli in caso di separazione diretto e indiretto sta nel fatto che nella prima, questo si manifesta nel soddisfacimento immediato dei bisogni, mentre nel secondo caso attraverso la corresponsione di un assegno periodico che copre le necessità della prole.

L’assegno di mantenimento

La forma di mantenimento dei figli in caso di separazione che prevale, anche nell’affidamento congiunto, è quella dell’assegno, così la Giurisprudenza ha sempre confermato, anche dopo la riforma del 2006.

A disporre l’obbligo del genitori a versare l’assegno di mantenimento a favore della prole, è il Giudice, che deve tener conto di diversi fattori:

  • Esigenze attuali della prole;
  • Tenore di vita tenuto dalla prole durante il periodo di convivenza con entrambi i genitori;
  • Tempi di permanenza presso ciascun genitore;
  • Reddito dei genitori;
  • Valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.

Per determinare la somma da versare per il mantenimento dei figli in caso di separazione, viene data rilevanza agli accordi liberamente sottoscritti dai coniugi, e qualora si rendesse necessario sarà il Giudice a indicare la misura dell’assegno, valutando la capacità economica e il patrimonio nel complesso.

Nel caso in cui entrambi i genitori non abbiano i mezzi sufficienti, gli ascendenti in ordine di vicinanza di grado, sono tenuti dalla legge a aiutarli, fornendo loro i mezzi necessari per adempiere ai loro obblighi nei confronti della prole; se invece il genitore obbligato risulti inadempiente, il Presidente del Tribunale può ordinare che parte dei suoi redditi siano versati a favore dei figli.

Diritto di abitazione nella casa coniugale

Diritto di abitazione nella casa coniugale

Il diritto di abitazione nella casa coniugale dice a chi spetta vivere nella casa coniugale

La Corte di Cassazione ha trattato un caso relativo al diritto di abitazione con preciso riferimento al diritto di abitazione nella casa coniugale.

Più nello specifico, i giudici di Piazza Cavour sono stati interpellati dal ricorrente che lamentava che la Corte d’appello, ritenendo che la sentenza di primo grado non fosse stata impugnata adeguatamente su un punto specifico, quello di chi dovesse vivere in una casa coniugale dopo una separazione e un decesso.

Il quesito, riformulato consisteva nel valutare “Se sia conforme al disposto l’attribuzione del diritto di abitazione al coniuge ancora in vita quando lo stesso sia legalmente separato e non più convivente nella casa oggetto della disposizione successoria”

La Cassazione sul punto del diritto di abitazione nella casa coniugale ha deciso di ritenere fondata la censura poichè “Dagli atti di causa – che questa Corte può direttamente prendere in esame, stante il carattere di errore in procedendo del vizio denunciato: risulta che il ricorrente, nell’adire la Corte d’appello, aveva rivolto alla sentenza del Tribunale critiche precise e pertinenti, sostenendo la tesi che il diritto riservato non compete al coniuge superstite che al momento dell’apertura della successione testamentaria, a seguito di separazione personale, non abita più in quella che era stata la casa coniugale, poiché la norma intende assicurare una continuità di residenza che in tal caso è stata ormai interrotta”: non vi è quindi più diritto di abitazione nella casa coniugale.

I giudici di Piazza Cavour hanno osservato che “la questione, in tali precisi termini, è stata affrontata per la prima volta nella giurisprudenza di legittimità per quanto consta, solo recentissimamente, con una sentenza che l’ha risolta nel senso propugnato dal ricorrente: si è ritenuto, essenzialmente, che “il diritto reale di abitazione, riservato per legge al coniuge superstite ha come oggetto la casa coniugale, ossia l’immobile che in concreto era adibito a residenza familiare” e “si identifica con l’immobile in cui i coniugi – secondo la loro determinazione convenzionale, assunta in base alle esigenze di entrambi – vivevano insieme stabilmente, organizzandovi la vita domestica del gruppo familiare”, che “le espressioni usate nel codice non lasciano al riguardo spazi a dubbi interpretativi”, riferendosi “alla casa che dai coniugi era stata adibita a residenza familiare, che “lo scopo della suddetta disposizione è da rinvenire non tanto nella tutela dell’interesse economico del coniuge superstite di disporre di un alloggio, quanto dell’interesse morale legato alla conservazione dei rapporti affettivi e consuetudinari con la casa familiare”, quali “la conservazione della memoria del coniuge scomparso, delle relazioni sociali e degli status simbols goduti durante il matrimonio”; ma “in caso di separazione personale dei coniugi e di cessazione della convivenza, l’impossibilità di individuare una casa adibita a residenza familiare fa venire meno il presupposto oggettivo richiesto ai fini dell’attribuzione dei diritti in parola”, sicché “l’applicabilità della norma in esame è condizionata all’effettiva esistenza, al momento dell’apertura della successione, di una casa adibita ad abitazione familiare, evenienza che non ricorre allorché, a seguito della separazione personale, sia cessato lo stato di convivenza tra i coniugi”. Quindi il diritto di abitazione nella casa coniugale, in questo caso, non è previsto.

I genitori di figli adottati divorziano: cosa cambia

genitori di figli adottati divorziano

Nonostante una possibile richiesta di revoca nulla cambia per i bambini adottati

Adottare un bambino nel nostro paese non è assolutamente cosa facile: l’iter è infatti molto lungo e prevede un’indagine psicosociale per la coppia, che deve essere giudicata in grado di educare, istruire e mantenere il minore.

Possono adottare le coppie che sono sposate da almeno tre anni, o che tra convivenza e matrimonio raggiungono questo traguardo; tra gli adottanti e il bambino devono esserci almeno 18 anni di differenza e non più di 45 per uno dei due e 55 per l’altro.

Ma cosa succede quando una coppia si separa e poi divorzia, dopo essere riuscita ad adottare un bambino?

Qual è il destino per i bambini adottati?

Nulla cambia per i figli adottati in caso di divorzio dei genitori, rispetto a quelli che sono nati in modo “naturale”.

L’unica segnalazione che è importante fare è quella che riguarda l’accettazione da parte della Corte di Cassazione di una richiesta arrivata da parte di un genitore separato: quella della revoca del decreto che aveva disposto l’adozione del figlio; anche dopo questo caso specifico, la revoca comunque non viene assolutamente disposta d’ufficio, ma deve essere sempre richiesta da uno dei due genitori, su iniziativa di un Pubblico Ministero o degli assistenti sociali che hanno il compito di monitorare l’andamento dei rapporti tra genitori e figli adottati.

Quindi devono presentarsi dei presupposti particolari per far sì che la richiesta venga accettata e poi valutata.

In caso di separazione e di divorzio della coppia, per l’affidamento di tutti i figli, si segue un percorso che prevede due soluzioni diverse: l’affidamento condiviso o l’affidamento esclusivo.

Affidamento condiviso

La legge n.54 del 2006 ha disposto come principio fondamentale questo tipo di affidamento, che garantisce il diritto, anche per i figli adottati, alla bi-genitorialità, cioè a mantenere con entrambi i genitori un rapporto stabile ed equilibrato.

In questo caso, infatti, i figli, anche se vivono stabilmente da uno dei due, passano dei periodi presso l’altro, (non si parla di diritto di visita) e tutti e due i genitori partecipano alle decisioni, importanti o meno, che li riguardano.

Affidamento esclusivo

In casi particolari, nei quali non è possibile procedere con l’affidamento congiunto per l’interesse dei figli, si preferisce quello esclusivo per tutelare i figli adottivi e non.

Questa situazione prevede che siano stabilite delle regole molto rigide per le visite del genitore non affidatario, che comunque partecipa alle decisioni importanti e ha il diritto, e il dovere di vigilare sull’istruzione e l’educazione dei figli, che sono sotto la responsabilità genitoriale esclusiva dell’altro.

Nel caso in cui venissero ravvisate delle situazioni particolari il genitore non affidatario può richiedere l’intervento del Giudice.

TFR del coniuge divorziato: in quali casi l’ex coniuge ne ha diritto

tfr del coniuge divorziato

In caso di divorzio il coniuge ha diritto ad una quota del TFR del coniuge divorziato

In caso di divorzio la Legge prevede delle tutele per il coniuge più debole; tra queste il versamento di un assegno divorzile, una quota della pensione di reversibilità in caso di morte dell’ex coniuge e una quota del TFR del coniuge divorziato.

In particolare è prevista la percezione di una quota pari al 40% del TFR, trattamento di fine rapporto, dell’altro coniuge calcolato sull’arco di tempo in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio.

Per trattamento di fine rapporto o liquidazione, si intende un importo spettante al lavoratore nel momento in cui viene meno il rapporto di lavoro subordinato.

Affinché il lavoratore divorziato sia tenuto a versare una parte del suo TFR all’ex coniuge, devono sussistere determinate condizioni:

  1. l’ex coniuge che richiede la quota di TFR del coniuge divorziato può aver deciso di convivere con una terza persona dopo il divorzio, ma non deve essersi risposato;
  2. il lavoratore divorziato è già tenuto a versare un assegno divorzile a cadenza periodica all’ex coniuge che fa richiesta della quota di TFR.

In altre parole, se l’ex coniuge non ha diritto all’assegno perché non lo ha mai avuto o perché è stato revocato in seguito a modifica delle condizioni economiche oppure ancora lo ha ricevuto in un’unica soluzione, non avrà alcun diritto alla quota del TFR del coniuge divorziato.

Come e quando fare domanda per la quota di TFR

Il TFR del coniuge divorziato può maturare prima o dopo la pronuncia della sentenza di divorzio che stabilisce le tutele e i versamenti che spettano ai due coniugi in via di divorzio.

Se il TFR è maturato prima di tale data il diritto alla quota viene dichiarato dalla sentenza di divorzio stessa da parte del Tribunale di riferimento.

Se il TFR matura dopo la sentenza di divorzio, il coniuge interessato alla quota deve fare istanza al Tribunale affinché il suo diritto a percepire tale quota sia accertato e riconosciuto.

Il Tribunale valuterà se al momento della richiesta sono soddisfatte le condizioni di cui sopra, ossia se l’ex coniuge che ha avanzato la richiesta stessa già percepisce un assegno divorzile periodico e se il suo stato civile è libero e successivamente procederà alla divisione delle quote del TFR del coniuge divorziato.

Il calcolo della quota di TFR del coniuge divorziato

È bene sottolineare che la legge sul Divorzio stabilisce che la quota di TFR dovuta all’ex coniuge divorziato corrisponde al 40% dell’indennità totale “riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio”.

Questo significa che il divorziato non ha diritto al 40% dell’intero TFR ma che la quota a lui spettante va calcolata sulla durata del matrimonio coincidente con quella del rapporto di lavoro.

L’arco di durata del matrimonio comprende, come nel caso del calcolo della pensione di reversibilità, anche il periodo di separazione legale dei due coniugi.

Famiglia di fatto: cosa dice la legge italiana

famiglia di fatto

Come è regolamentata in Italia la convivenza more uxorio

La famiglia di fatto (indicata anche dal termine convivenza more uxorio) si differenzia da quella tradizionale, che è caratterizzata dal vincolo matrimoniale, perché costituita da persone che sono legate fra loro solo dalla volontà di stare insieme volontariamente, stabilmente e per motivi affettivi.

La famiglia di fatto non gode delle stesse tutele da parte della legge accordate a quella tradizionale, ma viene ricompresa nelle “formazioni sociali” indicate dall’art. 2 della Costituzione.

La famiglia di fatto, per essere considerata tale, deve presentare alcune caratteristiche:

  • Mancanza dell’atto di matrimonio: i conviventi non vogliono o non possono sposarsi
  • La coppia coabita sotto lo stesso tetto, individuato come “casa familiare”, pur non essendo sposata. La coabitazione deve essere “qualificata” cioè finalizzata a realizzare una comunanza di vita sia materiale che spirituale, sulla base di quella matrimoniale
  • Il riconoscimento sociale: non sono comprese le convivenze segrete o di durata ancora così breve da non essere riconosciute dall’ambiente sociale
  • La convivenza deve essere stabile e realizzare una comunanza sentimentale e materiale

Tra i conviventi di fatto dunque non esistono diritti e doveri reciproci: la convivenza è basata su un’unione libera che può essere interrotta in qualunque momento.

Rilevanza giuridica della famiglia di fatto

La legge italiana non prevede tutele specifiche per le famiglie di fatto, quindi ci sono molti aspetti che vengono regolamentati usando strumenti di regolamentazione dei rapporti tra privati.

Tra essi:

  • L’accesso alla procreazione assistita è possibile anche per le coppie conviventi
  • In un processo penale il convivente può astenersi dal testimoniare contro il partner
  • Un convivente può essere l’amministratore di sostegno dell’altro
  • Il convivente ha il diritto di subentrare nel contratto di locazione intestato al partner, in caso di morte di quest’ultimo;
  • I conviventi possono esercitare le azioni volte a accertare il suo diritto a possedere la casa dove si svolge la convivenza;
  • In caso di morte per incidente o per dolo del convivente, il partner ha diritto al risarcimento del danno;
  • Si applica anche al convivente violento, non solo al coniuge, il reato di stalking
  • Anche la famiglia di fatto può usufruire dei vantaggi dello “stato sociale”, ad esempio per le assegnazioni di case popolari
  • Un minorenne disponibile temporaneamente per l’affidamento perché privo di un ambiente familiare idoneo può essere affidato anche ad una famiglia di fatto

Rapporti patrimoniali nelle famiglie di fatto

La legge italiana, pur non riconoscendo ai conviventi la stessa tutela della famiglia legittima, identifica comunque il valore sociale della famiglia di fatto: per questa ragione quando vengono operate elargizioni di denaro da un convivente all’altro nell’ambito della vita di coppia, queste devono essere intese come adempimento di obbligazioni naturali (si parla di obbligazioni naturali quando le prestazioni sono dovute all’esecuzione di un dovere morale).

L’obbligazione naturale fa in modo che venga esclusa la ripetizione, ossia la possibilità per il convivente che ha dato di chiedere la cifra indietro. Questo a meno che la prestazione economica non sia sproporzionata rispetto all’esigenza da soddisfare, non sia stata eseguita spontaneamente o sia stata effettuata da una persona incapace di intendere e volere.

Interruzione della convivenza more uxorio

La famiglia di fatto può sciogliersi di comune accordo o per la morte di uno dei due conviventi: nel primo caso, quando il rapporto si interrompe non esistono obblighi né morali né materiali fra gli ex conviventi. Quando il convivente muore per cause naturali, il convivente superstite non può avanzare pretese sull’asse ereditario, almeno che non sia stato previsto in precedenza nel testamento. Se il convivente muore per colpa di terzi (incidente, omicidio), il convivente ha invece diritto all’eventuale risarcimento.