I genitori di figli adottati divorziano: cosa cambia

genitori di figli adottati divorziano

Nonostante una possibile richiesta di revoca nulla cambia per i bambini adottati

Adottare un bambino nel nostro paese non è assolutamente cosa facile: l’iter è infatti molto lungo e prevede un’indagine psicosociale per la coppia, che deve essere giudicata in grado di educare, istruire e mantenere il minore.

Possono adottare le coppie che sono sposate da almeno tre anni, o che tra convivenza e matrimonio raggiungono questo traguardo; tra gli adottanti e il bambino devono esserci almeno 18 anni di differenza e non più di 45 per uno dei due e 55 per l’altro.

Ma cosa succede quando una coppia si separa e poi divorzia, dopo essere riuscita ad adottare un bambino?

Qual è il destino per i bambini adottati?

Nulla cambia per i figli adottati in caso di divorzio dei genitori, rispetto a quelli che sono nati in modo “naturale”.

L’unica segnalazione che è importante fare è quella che riguarda l’accettazione da parte della Corte di Cassazione di una richiesta arrivata da parte di un genitore separato: quella della revoca del decreto che aveva disposto l’adozione del figlio; anche dopo questo caso specifico, la revoca comunque non viene assolutamente disposta d’ufficio, ma deve essere sempre richiesta da uno dei due genitori, su iniziativa di un Pubblico Ministero o degli assistenti sociali che hanno il compito di monitorare l’andamento dei rapporti tra genitori e figli adottati.

Quindi devono presentarsi dei presupposti particolari per far sì che la richiesta venga accettata e poi valutata.

In caso di separazione e di divorzio della coppia, per l’affidamento di tutti i figli, si segue un percorso che prevede due soluzioni diverse: l’affidamento condiviso o l’affidamento esclusivo.

Affidamento condiviso

La legge n.54 del 2006 ha disposto come principio fondamentale questo tipo di affidamento, che garantisce il diritto, anche per i figli adottati, alla bi-genitorialità, cioè a mantenere con entrambi i genitori un rapporto stabile ed equilibrato.

In questo caso, infatti, i figli, anche se vivono stabilmente da uno dei due, passano dei periodi presso l’altro, (non si parla di diritto di visita) e tutti e due i genitori partecipano alle decisioni, importanti o meno, che li riguardano.

Affidamento esclusivo

In casi particolari, nei quali non è possibile procedere con l’affidamento congiunto per l’interesse dei figli, si preferisce quello esclusivo per tutelare i figli adottivi e non.

Questa situazione prevede che siano stabilite delle regole molto rigide per le visite del genitore non affidatario, che comunque partecipa alle decisioni importanti e ha il diritto, e il dovere di vigilare sull’istruzione e l’educazione dei figli, che sono sotto la responsabilità genitoriale esclusiva dell’altro.

Nel caso in cui venissero ravvisate delle situazioni particolari il genitore non affidatario può richiedere l’intervento del Giudice.

TFR del coniuge divorziato: in quali casi l’ex coniuge ne ha diritto

tfr del coniuge divorziato

In caso di divorzio il coniuge ha diritto ad una quota del TFR del coniuge divorziato

In caso di divorzio la Legge prevede delle tutele per il coniuge più debole; tra queste il versamento di un assegno divorzile, una quota della pensione di reversibilità in caso di morte dell’ex coniuge e una quota del TFR del coniuge divorziato.

In particolare è prevista la percezione di una quota pari al 40% del TFR, trattamento di fine rapporto, dell’altro coniuge calcolato sull’arco di tempo in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio.

Per trattamento di fine rapporto o liquidazione, si intende un importo spettante al lavoratore nel momento in cui viene meno il rapporto di lavoro subordinato.

Affinché il lavoratore divorziato sia tenuto a versare una parte del suo TFR all’ex coniuge, devono sussistere determinate condizioni:

  1. l’ex coniuge che richiede la quota di TFR del coniuge divorziato può aver deciso di convivere con una terza persona dopo il divorzio, ma non deve essersi risposato;
  2. il lavoratore divorziato è già tenuto a versare un assegno divorzile a cadenza periodica all’ex coniuge che fa richiesta della quota di TFR.

In altre parole, se l’ex coniuge non ha diritto all’assegno perché non lo ha mai avuto o perché è stato revocato in seguito a modifica delle condizioni economiche oppure ancora lo ha ricevuto in un’unica soluzione, non avrà alcun diritto alla quota del TFR del coniuge divorziato.

Come e quando fare domanda per la quota di TFR

Il TFR del coniuge divorziato può maturare prima o dopo la pronuncia della sentenza di divorzio che stabilisce le tutele e i versamenti che spettano ai due coniugi in via di divorzio.

Se il TFR è maturato prima di tale data il diritto alla quota viene dichiarato dalla sentenza di divorzio stessa da parte del Tribunale di riferimento.

Se il TFR matura dopo la sentenza di divorzio, il coniuge interessato alla quota deve fare istanza al Tribunale affinché il suo diritto a percepire tale quota sia accertato e riconosciuto.

Il Tribunale valuterà se al momento della richiesta sono soddisfatte le condizioni di cui sopra, ossia se l’ex coniuge che ha avanzato la richiesta stessa già percepisce un assegno divorzile periodico e se il suo stato civile è libero e successivamente procederà alla divisione delle quote del TFR del coniuge divorziato.

Il calcolo della quota di TFR del coniuge divorziato

È bene sottolineare che la legge sul Divorzio stabilisce che la quota di TFR dovuta all’ex coniuge divorziato corrisponde al 40% dell’indennità totale “riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio”.

Questo significa che il divorziato non ha diritto al 40% dell’intero TFR ma che la quota a lui spettante va calcolata sulla durata del matrimonio coincidente con quella del rapporto di lavoro.

L’arco di durata del matrimonio comprende, come nel caso del calcolo della pensione di reversibilità, anche il periodo di separazione legale dei due coniugi.

Famiglia di fatto: cosa dice la legge italiana

famiglia di fatto

Come è regolamentata in Italia la convivenza more uxorio

La famiglia di fatto (indicata anche dal termine convivenza more uxorio) si differenzia da quella tradizionale, che è caratterizzata dal vincolo matrimoniale, perché costituita da persone che sono legate fra loro solo dalla volontà di stare insieme volontariamente, stabilmente e per motivi affettivi.

La famiglia di fatto non gode delle stesse tutele da parte della legge accordate a quella tradizionale, ma viene ricompresa nelle “formazioni sociali” indicate dall’art. 2 della Costituzione.

La famiglia di fatto, per essere considerata tale, deve presentare alcune caratteristiche:

  • Mancanza dell’atto di matrimonio: i conviventi non vogliono o non possono sposarsi
  • La coppia coabita sotto lo stesso tetto, individuato come “casa familiare”, pur non essendo sposata. La coabitazione deve essere “qualificata” cioè finalizzata a realizzare una comunanza di vita sia materiale che spirituale, sulla base di quella matrimoniale
  • Il riconoscimento sociale: non sono comprese le convivenze segrete o di durata ancora così breve da non essere riconosciute dall’ambiente sociale
  • La convivenza deve essere stabile e realizzare una comunanza sentimentale e materiale

Tra i conviventi di fatto dunque non esistono diritti e doveri reciproci: la convivenza è basata su un’unione libera che può essere interrotta in qualunque momento.

Rilevanza giuridica della famiglia di fatto

La legge italiana non prevede tutele specifiche per le famiglie di fatto, quindi ci sono molti aspetti che vengono regolamentati usando strumenti di regolamentazione dei rapporti tra privati.

Tra essi:

  • L’accesso alla procreazione assistita è possibile anche per le coppie conviventi
  • In un processo penale il convivente può astenersi dal testimoniare contro il partner
  • Un convivente può essere l’amministratore di sostegno dell’altro
  • Il convivente ha il diritto di subentrare nel contratto di locazione intestato al partner, in caso di morte di quest’ultimo;
  • I conviventi possono esercitare le azioni volte a accertare il suo diritto a possedere la casa dove si svolge la convivenza;
  • In caso di morte per incidente o per dolo del convivente, il partner ha diritto al risarcimento del danno;
  • Si applica anche al convivente violento, non solo al coniuge, il reato di stalking
  • Anche la famiglia di fatto può usufruire dei vantaggi dello “stato sociale”, ad esempio per le assegnazioni di case popolari
  • Un minorenne disponibile temporaneamente per l’affidamento perché privo di un ambiente familiare idoneo può essere affidato anche ad una famiglia di fatto

Rapporti patrimoniali nelle famiglie di fatto

La legge italiana, pur non riconoscendo ai conviventi la stessa tutela della famiglia legittima, identifica comunque il valore sociale della famiglia di fatto: per questa ragione quando vengono operate elargizioni di denaro da un convivente all’altro nell’ambito della vita di coppia, queste devono essere intese come adempimento di obbligazioni naturali (si parla di obbligazioni naturali quando le prestazioni sono dovute all’esecuzione di un dovere morale).

L’obbligazione naturale fa in modo che venga esclusa la ripetizione, ossia la possibilità per il convivente che ha dato di chiedere la cifra indietro. Questo a meno che la prestazione economica non sia sproporzionata rispetto all’esigenza da soddisfare, non sia stata eseguita spontaneamente o sia stata effettuata da una persona incapace di intendere e volere.

Interruzione della convivenza more uxorio

La famiglia di fatto può sciogliersi di comune accordo o per la morte di uno dei due conviventi: nel primo caso, quando il rapporto si interrompe non esistono obblighi né morali né materiali fra gli ex conviventi. Quando il convivente muore per cause naturali, il convivente superstite non può avanzare pretese sull’asse ereditario, almeno che non sia stato previsto in precedenza nel testamento. Se il convivente muore per colpa di terzi (incidente, omicidio), il convivente ha invece diritto all’eventuale risarcimento.

Matrimonio all’estero: procedura per il riconoscimento in Italia

matrimonio contratto all'estero

Come regolarizzare in Italia un matrimonio contratto all’estero

Il matrimonio di italiani all’estero non è più un vento sporadico, sempre più spesso ci si trova davanti a riti celebrati in paesi che non sono il nostro.

Ipotesi non più isolate di cittadini italiani che seppure residenti in Italia si recano all’estero per contrarre matrimonio nel paese di cittadinanza del coniuge straniero si intrecciano alla varietà delle motivazioni che talvolta spingono anche coniugi italiani alla scelta di una celebrazione al di fuori del territorio italiano.

L’ordinamento giuridico italiano ha provveduto a mettere ordine nel caso di matrimonio di italiani all’estero con una norma specifica dove si prevede (testualmente) che i matrimoni riconoscibili o meglio trascrivibili in Italia, “sono quelli celebrati tra cittadini italiani, ovvero tra un cittadino italiano ed uno straniero, alla presenza dell’autorità diplomatica o consolare competente, oppure dinnanzi all’autorità locale”.

È libera la possibilità di scegliere tra una celebrazione dinanzi all’autorità consolare italiana o dinanzi all’autorità locale con alcune differenze procedurali.

Secondo l’orientamento giuridico prevalente quale che sia la modalità di celebrazione prescelta,  rimane obbligo ai soggetti che intendono sposarsi l’obbligo della pubblicazione, stabilito dal codice civile per la sua importantissima funzione di verifica circa la non esistenza da parte dell’ufficiale di stato civile di impedimenti suscettibili di scatenare successive azioni di decadenza o annullamento.

Per quanto concerne la fase precedente al matrimonio di italiani all’estero è necessario attenersi a quanto prescritto dal codice: “le pubblicazioni per il cittadino che intenda contrarre matrimonio avanti l’autorità consolare sono effettuate presso l’ufficio consolare in cui la celebrazione deve aver luogo, eventualmente presso quello nella cui circoscrizione sia residente il soggetto che intende sposarsi ed in Italia.”

Due sono i criteri applicati dalla norma: il primo in riferimento all’autorità consolare davanti alla quale il matrimonio sarà celebrato, il secondo è quello relativo alla residenza dei futuri coniugi.

Le pubblicazioni di matrimonio di italiani all’estero hanno luogo mediante affissione nell’albo consolare di un atto contenente nome, cognome, data e luogo di nascita, residenza e professione. Le legislazioni di alcuni paesi esteri richiedono un’ attestazione concernente la mancanza di impedimenti in capo al cittadino italiano e talvolta il rilascio del certificato di capacità matrimoniale.

In ogni caso occorre sottolineare la piena validità di un atto di matrimonio non preceduto dalle prescritte pubblicazioni, trattandosi di una fase meramente preparatoria e precedente alla formazione del vincolo coniugale.

Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte I matrimoni celebrati all’estero hanno immediata validità nel nostro ordinamento qualora risultino celebrati secondo le forme previste dalla legge straniera: la trascrizione in Italia assume quindi un valore meramente certificativo. Questo significa che a tutti gli effetti il matrimonio è immediatamente valido, anche se ai fini della richiesta di ogni certificato civile bisogna ovviamente attendere fino alla sua registrazione da parte del comune nel quale risiedono i coniugi.

Il divorzio tramite ambasciata

divorzio tramite ambasciata

La procedura per ottenere il divorzio al di fuori del nostro paese e poi trascriverlo

In Italia fino al 1970 il matrimonio era considerato legalmente indissolubile, infatti era consentito lo scioglimento solo in caso di morte di uno dei coniugi.

La legge “Fortuna-Baslini” ha poi concesso questo diritto, sancendo tutti i casi nei quali è possibile divorziare; il più frequente è sicuramente quello della separazione legale dei coniugi, che deve durare da un certo periodo di tempo senza interruzioni.

Questo periodo di tempo si è poi oggi notevolmente ridotto con l’introduzione della legge sul divorzio breve, grazie alla quale è possibile aspettare anche solo 6 mesi dopo la sentenza di separazione, nel caso in cui sia però consensuale.

La legge italiana prevede, infatti, questo periodo di tempo finestra tra separazione e divorzio, per dare modo alla coppia di riflettere e magari riconciliarsi; se questo non dovesse succedere si procede verso lo scioglimento definitivo del matrimonio.

Esistono due tipi di divorzio:

Divorzio consensuale

I coniugi separati presentano la domanda di divorzio di comune accordo, e lo sono sulle diverse questioni; è’ comunque prevista l’assistenza di un legale per la causa; al termine di questa sarà il Giudice ad emettere la sentenza di divorzio, che sarà così annottato nei registri dello stato civile del comune competente.

Divorzio giudiziale

Si parla di divorzio giudiziale quando non c’è un accordo tra i coniugi; questi vengono ricevuti dal Giudice prima separatamente, poi in modo congiunto, per cercare di risolvere le controversie; con la sentenza vengono precisate tutte le condizioni dettate dal Giudice per il divorzio.

Il divorzio tramite ambasciata

Nonostante i tempi ristretti dettati dalla legge sul divorzio breve, si sta diffondendo nel nostro paese la pratica di divorziare all’estero, ad esempio in Spagna, dove non esiste più la separazione come anticamera del divorzio, ed è possibile ottenerlo nell’arco di pochi mesi.

In questo caso si parla di divorzio tramite ambasciata, perché l’udienza in uno dei paesi della Comunità Europea viene fissata davanti all’autorità, in questo caso specifico, spagnola, alla quale può partecipare anche solo un legale avvocato munito di delega.

Per il divorzio tramite ambasciata è necessario, infatti, nominare un avvocato del posto, e si può fare con due opzioni: attraverso il consolato o l’ambasciata, al costo di circa 40 euro, oppure scegliere una via più semplice, quella della procura, da far autenticare da un notaio, al costo di circa 200 euro.

Per procedere con il divorzio tramite ambasciata è necessario che almeno uno dei due coniugi abbia il proprio domicilio nel paese nel quale s’intende procedere.

Quando viene pronunciata la sentenza di divorzio è possibile effettuare la trascrizione presso il comune italiano nel quale è stato celebrato il matrimonio, grazie al principio previsto dal regolamento comunitario n. 2201/03, che è entrato in vigore dal primo marzo 2005, secondo il quale “le decisioni pronunciate in uno Stato membro sono riconosciute negli altri Stati membri senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento

L’assegno di mantenimento dei figli dopo il divorzio

mantenimento dei figli dopo il divorzio

La legge prevede che i figli siano sostenuti economicamente anche dopo il divorzio dei genitori

La riforma normativa del 2006, con la legge n.54 ”Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli”, ha stabilito all’art. 155 del Codice civile il dovere che hanno i genitori di contribuire al mantenimento dei figli anche quando avviene la separazione e il conseguente divorzio.

In tutti i casi, infatti, ad essere tutelato è l’interesse dei figli, ai quali è riconosciuto il diritto alla bi-genitorialità: devono mantenere anche nei casi di separazione e divorzio, un rapporto stabile ed equilibrato con entrambi i genitori; la forma privilegiata deve essere sempre quella dell’affidamento condiviso, grazie al quale il minore mantiene ben solido il rapporto con il genitore presso il quale non vive abitualmente, il quale partecipa a tutte le decisioni che lo riguardano.

Per quanto riguarda il mantenimento dei figli in caso di divorzio, bisogna far riferimento all’art. 155 c.c., che dispone tutte le regole che riguardano tanto la regolamentazione delle modalità di mantenimento diretto/indiretto, e i criteri di quantificazione dell’assegno del mantenimento.

Ma qual è la differenza tra il mantenimento dei figli dopo il divorzio diretto e indiretto?

In quello diretto si verifica il soddisfacimento immediato dei bisogni del minore, mentre in quello indiretto avviene attraverso la corresponsione di un assegno periodico, volto a soddisfare le sue necessità.

L’assegno di mantenimento

Anche dopo la riforma del 2006 la forma di mantenimento che prevale è quella dell’assegno, così come ci dimostra la Giurisprudenza in merito.

Il Giudice che dispone il versamento deve tener conto di diversi fattori:

  • Esigenze attuali del minore;
  • Tenore di vita tenuto dal minore durante il periodo di convivenza con entrambi i genitori;
  • Tempi di permanenza presso ogni genitore;
  • Reddito dei genitori;
  • Valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti di ciascun genitore.

A tal proposito il decreto legislativo 154/2013 ha ribadito che i genitori sono tenuti a versare un mantenimento dei figli dopo il divorzio, proporzionato alle rispettive sostanze e alla loro capacità di lavoro professionale o casalingo.

Nella determinazione della somma viene data rilevanza agli accordi presi liberamente dai coniugi, ma qualora si rendesse necessario, il Giudice indica la misura dell’assegno.

Può anche accadere che per il mantenimento dei figli dopo il divorzio, nessuno dei due genitori risulti idoneo, per mancanza di redditi propri: in questo caso gli ascendenti in ordine di vicinanza di grado, sono tenuti a fornire loro i mezzi necessari per adempiere ai loro obblighi nei confronti della prole.

Se il genitore obbligato, invece, risulti inadempiente, il Presidente del Tribunale può intervenire ordinando che parte dei suoi redditi siano versati a favore dei figli.

 

La separazione internazionale: cosa fare

separazione internazionale

La separazione dei coniugi quando hanno una nazionalità diversa da quella italiana

Cosa succede quando finisce un matrimonio misto, contratto cioè da due persone di nazionalità diversa? A quale legislazione bisogna fare riferimento per regolamentare la separazione?

Nel caso in cui si debba ricorrere alla separazione internazionale o divorzio internazionale,

la legge italiana stabilisce che la separazione o lo scioglimento del vincolo matrimoniale sono regolate dalla legge nazionale comune degli sposi al momento della domanda di divorzio. In mancanza di questa si applica la legge dello Stato in cui l’esperienza matrimoniale si è consumata per la maggior parte del tempo.

Ne deriva che in base a tale legge nel caso di una separazione internazionale può trovare applicazione nel nostro Paese ad esempio la legge in vigore in Spagna che consente il divorzio dopo solo novanta giorni e senza dover obbligatoriamente passare dalla separazione, nel caso in cui la vita dei coniugi si sia svolta prevalentemente in Spagna.

Invece nel caso in cui la separazione e il divorzio non sono regolati da una legge straniera che trovi applicazione nel nostro paese, prevale quella in vigore in Italia.

Questo per assicurare il diritto a separarsi o divorziare a prescindere dalla legislazione straniera.

In ambito comunitario europeo si è affermata una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione dei coniugi.

Individuazione della legge applicabile

Quando i coniugi hanno una diversa cittadinanza e devono addivenire a una separazione internazionale, l’individuazione della legge applicabile è rimessa alla valutazione e al giudizio del giudice che dovrà individuare il paese in cui la vita coniugale si è svolta, cioè dove i coniugi hanno vissuto per la maggior parte del tempo.

Il criterio della localizzazione della vita della coppia è un criterio di carattere introdotto dalla recente normativa e disciplina anche i rapporti personali tra i coniugi.

Vale la legge italiana in assenza di una legge straniera in materia

La separazione personale e lo scioglimento del matrimonio, qualora non siano previsti dalla legge straniera applicabile, sono regolati dalla legge italiana sempre e comunque. In materia di non validità e di annullamento del matrimonio, di separazione personale e di scioglimento del matrimonio, la giurisdizione italiana sussiste oltre che in alcuni casi espressamente previsti dalla legge in altre circostanze, per esempio nel caso in cui il soggetto è domiciliato o residente in Italia o vi abbia un rappresentante legale che sia autorizzato a stare in giudizio.

Anche quando uno dei coniugi è cittadino italiano o il matrimonio è stato celebrato in Italia si può ricorrere alla separazione internazionale. Corre l’obbligo di sottolineare che l’applicazione della legge italiana non presuppone la cittadinanza italiana del coniuge richiedente e può essere invocata anche da uno straniero, sia in un matrimonio misto sia in un matrimonio fra persone che abbiano entrambi cittadinanze differenti da quella italiana.

Assegnazione della casa familiare: chi ne ha diritto

assegnazione della casa familiare

Chi ha diritto a vivere nella casa dei coniugi in caso di separazione?

L’ assegnazione della casa familiare è uno degli argomenti di maggior conflitto tra due persone che stanno per separarsi.

 L’assegnazione della casa coniugale è tesa a preservare, nel caso di separazione, la continuità delle abitudini esistenziali di vita nell’immobile che costituisce il luogo naturale dove si è sviluppata la vita familiare.

In modo particolare si cerca di proteggere i figli, dallo shock di essere improvvisamente obbligati a vivere lontano dal luogo dove hanno condotto la loro esistenza spesso sin dalla nascita. Con questo spirito il giudice procede quando valuta l’assegnazione della casa familiare.

Corre l’obbligo di rimarcare che non esiste una definizione giuridica di di casa coniugale nonostante tale termine sia utilizzato anche in aula di tribunale. In ambito legale però si distinguono di solito due significati con tale definizione:

La casa cioè il bene immobile in cui si è svolta la vita degli sposi e quella familiare.

Il centro di aggregazione della famiglia durante la convivenza inteso in senso psicologico come nucleo domestico. La legge relativa all’assegnazione della casa coniugale si riferisce a questa seconda interpretazione.

Peculiarità specifiche della casa familiare sono: l’abitualità, la stabilità e la continuità nel godimento dell’immobile.

Nell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà.

Il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso l’assegnatario non abiti o cessi di risiedere stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio.

In presenza di figli minori, ciascuno dei genitori è obbligato a comunicare all’altro, entro il termine perentorio di trenta giorni, l’avvenuto cambiamento di residenza o di domicilio.

La mancata comunicazione obbliga al risarcimento del danno eventualmente verificatosi a carico del coniuge o dei figli per la difficoltà di reperire l’altro genitore.

Ci si è posti il problema se la presenza e la convivenza di figli (minorenni o maggiorenni) costituisca una condizione essenziale per il giudice per emanare un provvedimento di assegnazione della casa familiare in sede di separazione o se al contrario l’assegnazione possa essere disposta anche in assenza di figli.

Secondo alcuni magistrati l’assegnazione della casa familiare deve rappresentare non solo uno strumento di garanzia e di tutela dai figli, ma anche un modo per proteggere il coniuge che non abbia un reddito sufficiente a permettergli di vivere.

Altri giudici in prevalenza e più di recente però, ammettono l’assegnazione della casa di famiglia solo in presenza di figli.

 Al coniuge (non proprietario) non spetta generalmente il diritto all’assegnazione della casa coniugale.

Tuttavia, la questione si complica nel caso in cui il diritto di abitazione serva ad equilibrare i rapporti economici tra i coniugi e a soddisfare l’eventuale diritto al mantenimento.

Determinare la posizione giuridica del coniuge cui è assegnata la casa coniugale assume particolare rilevanza nel caso in cui l’altro coniuge sia il proprietario dell’immobile.

A tutela dell’assegnatario è previsto espressamente che il provvedimento di assegnazione della casa familiare è trascrivibile (è uno strumento per la soluzione di conflitti tra più soggetti acquirenti di diritti reali su determinati beni) nei registri immobiliari della Conservatoria (per renderlo opponibile a eventuali terzi che dovessero acquistare diritti sull’immobile).

Nell’ipotesi in cui i coniugi siano comproprietari della casa familiare e abbiano adeguati redditi, il giudice non può assegnare la casa in modo esclusivo ad uno solo di essi: le parti devono determinarsi liberamente e se non trovano un accordo possono chiedere la divisione fisica dell’immobile.

 Assegnazione parziale o comune

Quando la situazione concreta lo consente (per esempio l’immobile è molto grande) i giudici hanno ammesso l’assegnazione parziale della casa familiare suddividendola tra i coniugi e dividendola in due separate unità abitative.

Il fine principale è quello di consentire ai figli minori di mantenere rapporti con entrambi i genitori cui sono affidati.

Eredità dei figli: a chi va tra figli adottivi, legittimi e naturali?

eredità dei figli

Eliminata anche in materia di eredità dei figli la differenza tra figli legittimi e naturali

Nel caso in cui un genitore muoia senza lasciare un testamento nel quale esprime le sue volontà, come si divide l’eredità dei figli?

La legge italiana stabilisce delle regole molto rigide per quanto riguarda la successione; infatti, anche in presenza di un testamento sono previste delle quote legittime, che spettano ai parenti più prossimi del defunto, che sono il coniuge, i figli, i genitori, i fratelli e altri parenti.

L’ammontare, quindi, dell’eredità dei figli, dipende dalla presenza del coniuge del defunto.

Se il defunto non lascia alcun testamento (o il testamento è invalido), la successione si dice “totalmente legittima”, perché è solo la legge a stabilire quali sono gli eredi; con il coniuge i parenti più prossimi sono i figli, ed eventualmente i nipoti che succedono per rappresentazione.

Calcolo dell’eredità dei figli

La successione legittima e le relative quote in favore dei figli si calcolano in base al numero di figli e in base alla presenza del coniuge.

Ad esempio:

  • Se non c’è il coniuge e c’è un solo figlio a lui spetta l’intera eredità;
  • Se non c’è il coniuge e ci sono più figli l’eredità deve essere divisa in parti uguali tra di loro;
  • Se ci sono il coniuge e un figlio, al primo spetta ½ e l’altro ½ al figlio;
  • Se ci sono il coniuge e due o più figli al primo spetta 1/3 e i restanti 2/3 vanno divisi tra i figli egualmente.

Ma c’è una differenza tra figli adottivi, legittimi e naturali?

Fino a non molto tempo fa il Codice civile nel disciplinare la successione poneva delle differenza nell’eredità ai figli, distinguendo quelli legittimi (nati all’interno di un matrimonio), quelli naturali (nati al di fuori del matrimonio).

Il decreto legislativo 154/2013, in materia di filiazione, ha abolito in modo definitivo ogni genere di distinzione tra i figli: infatti la legge ora parla solo di “figlio” senza discriminazioni.

Il legislatore già precedentemente aveva eliminato le differenze che c’erano tra figli nati dentro e fuori il matrimonio; infatti, con la legge del 10 dicembre 2012 n. 219 era stato già introdotto il principio della piena uguaglianza tra figli legittimi e naturali, che erano stati equiparati anche per quel che riguarda l’eredità e la successione dei genitori.

E per quanto riguarda l’eredità dei figli incestuosi?

Ai figli frutto di incesto (nati tra genitori legati da un rapporto di parentela), l’art. 580 del Codice civile, riconosceva solo il diritto a un assegno vitalizio, pari alla rendita della quota di eredità a cui avrebbero avuto diritto; questo perché i figli incestuosi non potevano essere riconosciuti, divieto poi rimosso dalla Legge 219/2012.

 

 

Amministrazione dei beni del minore: quali sono le cure e come funziona

amministrazione dei beni del minore

Con quali atti e modalità i genitori possono gestire i beni del figlio minorenne

Nel nostro ordinamento giuridico il minore non è capace di agire, ma non è privo della capacità giuridica; questo comporta che possa diventare titolare di diritti su dei beni, o che sorga la necessità che debba essere rappresentato per il compimento di alcune attività giuridiche.

Per l’amministrazione dei beni del minore è necessario, infatti, che se ne occupino i genitori (se presenti), che in modo congiunto esercitano la responsabilità genitoriale, o quello dei due che la esercita in via esclusiva.

A sancire questo è l’articolo 320 del Codice civile, ce recita così: “i genitori congiuntamente, o quello che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale, rappresentano i figli nati e nascituri, fino alla maggiore età o all’emancipazione, in tutti gli atti civili e ne amministrano i beni.”

E’ necessario però puntualizzare il potere/dovere che hanno i genitori sulla rappresentanza e amministrazione dei beni del minore:

  • Possono essere compiuti da un solo genitore solo gli atti di ordinaria amministrazione, esclusi i contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento, che possono invece essere compiuti disgiuntamente da ciascun genitore;
  • Se si presenta un disaccordo tra i genitori circa il compimento di un atto, o quando le decisioni dei genitori, prese di comune accordo, siano poi esercitate in maniera difforme, è possibile rivolgersi al tribunale secondo quanto dispone l’art. 316 (viste le regole previste in caso di contrasti nell’esercizio della responsabilità genitoriale.)

Per quanto riguarda invece l’amministrazione dei beni del minore che riguardano atti di straordinaria amministrazione, la situazione è più complicata.

Per gli atti rilevanti non è possibile l’esercizio disgiunto dei genitori, ma anche le decisioni prese di comune accordo tra i genitori dovranno rispettare altri requisiti; infatti, i genitori solo in presenza di queste due condizioni

  • Necessità o utilità evidente del figlio;
  • Previa autorizzazione concessa dal giudice tutelare.

Possono:

  • Alienare, ipotecare o dare in pegno i beni pervenuti al figlio a qualsiasi titolo, anche a causa di morte;
  • Accettare o rinunciare ad eredità o legati, e accettare donazioni;
  • Decidere lo scioglimento di comunioni;
  • Contrarre mutui o locazioni ultra novennali;
  • Compiere altri atti eccedenti la ordinaria amministrazione;
  • Promuovere, transigere o compromettere in arbitri giudizi relativi a tali atti,

I genitori che si occupano dell’amministrazione dei beni del minore, possono svolgere quindi, senza autorizzazione del Giudice tutelare, solo atti di ordinaria amministrazione.

Alcuni atti sono addirittura vietati ai genitori del minore:

  • Acquistare direttamente o per interposta persona dei beni e dei diritti del minore, neanche all’asta pubblica;
  • Diventare cessionari di alcuna ragione o credito verso il minore.